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PAROLE BELLE

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«Le mogli dei colleghi di Paolo si pavoneggiavano: l’altro giorno mio marito mi ha regalato rose bellissime. Oppure: mio marito mi ha regalato una collana splendida. Guardate!

Io, invece, non potevo esibire niente e neanche aspettarmi un gesto galante da Paolo. Almeno non nel senso inteso generalmente.

Alle feste guardavamo gli altri ballare. Lui rideva come un matto, io protestavo - racconta Agnese - Allora mi faceva finire di parlare poi mi chiedeva: Agnese, ma tu perché stai con me?

Io non ti do niente di tutto questo. Non sono il tipo di marito che torna a casa sempre allo stesso orario, si mette le pantofole, si siede davanti al telegiornale e poi nel pomeriggio porta la moglie in giro per una passeggiata. 

Faceva una pausa e mi diceva ancora: lo sai perché stai con me?

Perché io ti racconto la lieta novella. La prima volta che me lo disse rimasi spiazzata.

Mi misi a piangere. Erano lacrime di felicità». 

Paolo sussurrava ad Agnese che la lieta novella avrebbe tenuto vivo il loro amore, «perché l’amore ha bisogno di mantenersi fresco con una novità ogni giorno che non è il fiore o un regalo qualsiasi.

Perché tutto passa. Io ogni giorno mi devo rinnamorare di te. E tu di me. Inventandoci qualcosa di diverso».

Nonostante le difficoltà che Agnese e Paolo Borsellino dovettero affrontare per la scelta che lui aveva fatto, «la lieta novella che mi raccontava ogni giorno era già tutto per me. E anche le giornate pesanti diventavano allegre con le sue parole»

racconta Agnese che, mentre combatteva contro una grave malattia, decise undici anni fa di raccontare la sua quotidianità con il magistrato vittima di Cosa

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Era uno di quei giorni d’inizio autunno con il cielo un po’ confuso sul da farsi e il sole luccicoso che giocherellava con le onde della Versilia.

Il ristorante take away costruito in una serra fronte mare iniziava a riempirsi e Loretta era tornata dal bancone delle ordinazioni portandoci tre insalate di mare che ancora raccontavano l’estate.

Le chiacchiere condite di risate spaziavano dai minimi ai massimi sistemi in un apparente caos che, quel giorno, ci portò ad un punto che fece la differenza.

L’antefatto: quando Loretta era andata a ordinare due insalate di mare e un totano, essendo il totano esaurito, aveva ipotizzato di poterlo sostituire con il cous cous «ma vado a verificarlo» aveva detto e, corsa da noi, era tornata dalla ragazza che la stava servendo esclamando: «Niente cous cous ma una terza insalata».

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Ascolteremo quel sussurro lieve che ci parla di continuo anche quando non lo ascoltiamo, anche quando il baccano della mente imperversa.
E lo scriveremo.
 
Immersi nella Maremma selvaggia fra antichi casali in pietra abitati dallo sguardo curioso di un daino bianco, all’ombra delle querce secolari, sulle sponde del laghetto immobile, sdraiati nel frutteto,
 
daremo voce ad uno o più episodi della nostra vita lasciandoli affiorare senza filtri, senza freni, soprattutto senza paura.
Staremo bene, semplicemente insieme.
 
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Il tavolo di cristallo intorno al quale molte anime sedevano era al centro di un salone con ampie vetrate affacciate su di un parco pieno di sole e allegria.

La prima a parlare fu Corinne, un’anima coraggiosa: «Sono pronta ad andare sulla Terra - disse - per imparare a perdonare».

Dante esclamò: «È una sfida tra le più difficili e dolorose, ma ti aiuteremo; io sarò tuo padre e ti  ostacolerò in ogni modo per fornirti abbondante ‘materia' da perdonare».

Giulio: «Anch’io voglio esserci in veste di marito problematico; sarò un ottimo ‘stimolo’ quotidiano».

«Io ti tratterò ingiustamente sul lavoro - disse Sara - potrai esercitarti molto anche con me».

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Ci sono alcuni parcheggi liberi nel piazzale del piccolo supermercato e ancora non so come io, nel far manovra, abbia potuto centrare in pieno un fuoristrada. Inneggio ai sensori addormentati della retro o alla mia sbadataggine?

Ormai è fatta. Scendo e osservo i danni arrecati al paraurti anteriore della vettura tamponata. Mi guardo attorno. Non c’è nessuno. Scrivo un biglietto e mentre lo lascio sul parabrezza arriva il conducente; la Jeep non è sua ma della fidanzata. Mi farà chiamare. 

La telefonata di Monica mi coglie di sorpresa due giorni dopo. Mi scuso ma lei minimizza pronunciando parole che, nonostante risalgano a 15 anni fa, non ho più dimenticato: «Non preoccuparti, sarebbe potuto succedere anche a me. Me la tengo così, la macchina. Non facciamo niente».

«Non è giusto» replico, ma lei taglia corto come a non voler perdere tempo in discorsi poco interessanti o come se io e lei fossimo una cosa sola. La conversazione vira sui sentimenti, sulle stellate, sui nitriti dei cavalli, sul senso della vita; la nostra conoscenza sembra esistere da sempre.

Alla fine, stupite dall’ora che si è fatta, ci salutiamo con la mia segreta intenzione di portarle un regalo presso il maneggio che frequenta e che ho intuito essere non lontano dal fatidico parcheggio.

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