Mi sono spesso interrogata sul perché del dolore e sulle risposte della natura che, con fantasia e generosità, ci spiega tutto. In particolare mi ha sempre colpito la storia dell’aragosta e il suo mostrarci come la sofferenza sia necessaria per crescere.

Il crostaceo, infatti, ha un corpo morbido che si sviluppa all’interno di un guscio rigido il quale, con il passare del tempo, diventa stretto fino a far male.

È allora che l’aragosta va a nascondersi fra le rocce dove si libera dal guscio che la protegge (ma che non le serve più) e dove, nuda e vulnerabile, attende il formarsi della nuova corazza. Quando, in seguito, anche quel guscio diventerà piccolo, l’animale lo mollerà, ripetendo il processo.

Se, al primo disagio, l’aragosta potesse andare in farmacia ad acquistare un antidolorifico, lì per lì le sembrerebbe di aver trovato una soluzione, ma sarebbe un’illusione che, se reiterata, la porterebbe alla morte.

E noi? Quante volte, al sopraggiungere di un problema, abbiamo cercato di distrarci per non sentirlo o, dinanzi al mal di testa del fine settimana, abbiamo preso un analgesico senza chiederci il perché profondo di quel malessere?

Se continuiamo a ignorare le radici dei dolori psichici e fisici, il nostro corpo, che attraverso quei sintomi ci sta parlando, potrebbe trovarsi costretto ad alzare la voce facendo evolvere la cefalea in una patologia più importante. E il problema in un guaio.

Prendiamo l’esempio del mal di testa domenicale: e se volesse dirci che, nel rilassarci, si scioglie la tensione che abbiamo accumulato durante la settimana lavorativa ogni volta che non ci siamo sentiti all’altezza di quello che dovevamo fare?

Tacitando il sintomo ne diventeremmo consapevoli, o piuttosto ci comporteremmo come l’ipotetica aragosta che si fa dare alla Farmacia del Mare una medicina per non sentire la dolorosa pressione del guscio?

Con questo non voglio dire che se abbiamo un dolore dobbiamo per forza patirlo. Benedetti gli analgesici come pronto soccorso ma, prima di farli diventare un’abitudine, ricordiamoci che “Ogni sintomo è un messaggio”, titola il libro di Claudia Rainville, e che l’aragosta, grazie all’ascolto di sé, è diventata adulta.

Noi, a differenza del crostaceo, possiamo prenderci tempo e ignorare anche per anni la causa profonda dei nostri malesseri, ma arriverà il momento in cui scappare non sarà più possibile.

Quel giorno l’incontro con il dolore, la paura o la ferita che sanguina, sarà inevitabile. È allora che, messi con le spalle al muro, vulnerabili come l’aragosta spogliata del guscio, la Voce dell’Esistenza potrà raggiungerci per mezzo, ad esempio, di un sussulto del cuore, di una frase captata al volo, di un’emozione inaspettata.

Sarà liberatorio. Non dovremo fare nulla a parte stare lì, nudi e silenziosi, sotto le rocce delle nostre fragilità, a lasciar fare alla Vita, accogliendone l’amore.

Ripensando alla storia dell’aragosta, tuttavia, mi chiedo: vale la pena crescere, con le sofferenze del caso, per forse finire vivi in una pentola d’acqua bollente?

Io dico di sì perché non ci è dato sapere con quali modalità ci ‘cambieremo d’abito’, ma ci è dato vivere in pienezza ogni giorno per quello che è. Sotto una roccia o sotto un sorriso.

 
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