Bianca Brotto

Diffondiamo Bellezza

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biancabrotto

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Amo la vita, sempre, anche quando non la capisco, anche quando soffro, ancor di più quando esplodo di gioia; trovo sia un’avventura straordinaria che si rinnova ogni giorno, al sorgere del sole.


Suono di rado, ma con amore, il pianoforte e canto mentre guido. Non ho tempo per le frequentazioni sterili, ma non guardo l’orologio quando un amico ha bisogno di me; l’amicizia è un dono meraviglioso e mi ha salvato la vita.

Mi piace leggere, lasciarmi rapire dai notturni di Chopin e riempirmi con un bel film.


Adoro il fuoco, la fiamma viva, il calore che mi trasmette. Amo viaggiare e vivere le emozioni della natura, dell’arte e degli incontri inattesi. Quando posso fuggo all’isola d’Elba dove, nell’incedere lento e potente del mare, mi rigenero.



Non mi annoio mai, trovo che il semplice esistere nel presente sia entusiasmante.

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«Le mogli dei colleghi di Paolo si pavoneggiavano: l’altro giorno mio marito mi ha regalato rose bellissime. Oppure: mio marito mi ha regalato una collana splendida. Guardate!

Io, invece, non potevo esibire niente e neanche aspettarmi un gesto galante da Paolo. Almeno non nel senso inteso generalmente.

Alle feste guardavamo gli altri ballare. Lui rideva come un matto, io protestavo - racconta Agnese - Allora mi faceva finire di parlare poi mi chiedeva: Agnese, ma tu perché stai con me?

Io non ti do niente di tutto questo. Non sono il tipo di marito che torna a casa sempre allo stesso orario, si mette le pantofole, si siede davanti al telegiornale e poi nel pomeriggio porta la moglie in giro per una passeggiata. 

Faceva una pausa e mi diceva ancora: lo sai perché stai con me?

Perché io ti racconto la lieta novella. La prima volta che me lo disse rimasi spiazzata.

Mi misi a piangere. Erano lacrime di felicità». 

Paolo sussurrava ad Agnese che la lieta novella avrebbe tenuto vivo il loro amore, «perché l’amore ha bisogno di mantenersi fresco con una novità ogni giorno che non è il fiore o un regalo qualsiasi.

Perché tutto passa. Io ogni giorno mi devo rinnamorare di te. E tu di me. Inventandoci qualcosa di diverso».

Nonostante le difficoltà che Agnese e Paolo Borsellino dovettero affrontare per la scelta che lui aveva fatto, «la lieta novella che mi raccontava ogni giorno era già tutto per me. E anche le giornate pesanti diventavano allegre con le sue parole»

racconta Agnese che, mentre combatteva contro una grave malattia, decise undici anni fa di raccontare la sua quotidianità con il magistrato vittima di Cosa

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TI LEGGO L'ARTICOLO

Non ho mai saputo se la storia di Tea fosse vera, ma è la prima che mi è balzata in mente nell’incontrare Marco Luzzatto e Gabriele Gandola.

Tea, una bimba dal cuore curioso, viveva in una pianura sconfinata abitata da paesaggi silenti che alla piccola sembravano tutt’altro che vuoti. Un mattino, ai piedi della grande quercia, Tea incontrò un vecchio che stringeva tra le mani una radiolina.

«Che cosa senti quando non senti?» le chiese a bruciapelo.

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Ti leggo l'articolo: QUI

È USCITO IL NUOVO LIBRO DEGLI ARTICOLI
AGGIORNATO A TUTTO IL 2024: 
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Alcuni escursionisti svizzeri appassionati di civiltà maya sono in Messico per visitare un tempio segreto. Giunta l’ora di pranzo trovano ristoro in una “Fonda” locale.

Mentre stanno mangiando notano l’arrivo di una famiglia che, come vestiario e mercanzia che si porta appresso, tradisce un modo di vivere antico. Fritz, affascinato dalla particolarità di quella gente, esclama: «Voglio parlare con loro».

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ESPERIENZA DI SCRITTURA EMOZIONALE

VIDEO

SEMINARIO CON BIANCA BROTTO
DA 3 AL 6 APRILE 2025

LA VOCE DEL CUORE

in Maremma presso

IL DAINO BIANCO
Manciano (GR)

Immersi nel verde infinito ascolteremo il sussurro del cuore lungo le tappe della nostra vita e lo scriveremo lasciando la nostra penna libera di volare in leggerezza sul foglio senza filtri, senza giudizi, senza paure. Ci scopriremo e reinventeremo.

Ci lasceremo andare, finalmente.

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Gli chiedo come stia e, nonostante le sofferenze e i drammi della sua storia stravolta da malattie e lutti, Enrico risponde sempre «benissimo». Per scelta.

Quando pongo la stessa domanda a Federico, uomo con tutte le fortune del mondo, devo invece aprire l’ombrello per ripararmi dalla grandinata di sciagure che mi scarica addosso. Un giorno in cui mi sembrava sereno azzardai un «come stai?» Fu l’ultima volta.

A uno che sta male per scelta, infatti, tu non puoi chiedere come si sente quando la vita scorre per il meglio, perché lo costringi a tirar fuori di tutto pur di dimostrarti che lui, felice, non potrà mai esserlo. Iniziò infatti a parlarmi dei figli non abbastanza bravi, di un problema di lavoro e così via. 

Enrico vive in un mondo a colori sempre circondato da persone che volentieri lo vanno a trovare. Federico, solivago e prigioniero della mente, è incapace di ammettere a se stesso di essere inconsapevolmente dipendente dal grigiore del pessimismo.

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È stata una serata potente quella che Nicolò Govoni mi ha regalato perché a Cremona, nell’Aula Magna, non c’erano solo bellezza, entusiasmo, intelligenza, competenza; soprattutto c’era amore. Lo stesso amore che, nell’avvicinare a fine serata il trentenne, ho percepito nel suo sguardo. Lo stesso amore che ha ammantato di dolcezza e pace inenarrabili il mio cuore.

Ciò che questo ragazzo ha realizzato in sette anni con la sua organizzazione umanitaria «Still I Rise» non ha a che fare solo con i successi raggiunti e nemmeno con le due nomination al Premio Nobel per la pace, ma con la forza che lo muove dentro, la stessa che alberga in ognuno di noi e che ci permette di realizzare il nostro ikigai, termine giapponese che significa: «Ciò che ci spinge ad alzarci la mattina e a lottare».

L’ikigai viene rappresentato come una sorta di mandala dove «ciò che amiamo», «ciò di cui il mondo ha bisogno», «ciò per cui ci pagano» e «ciò che sappiamo far bene» si compenetrano dando vita al nostro sogno in un mix di passione, missione, vocazione, professione. 

Sapere che la nostra ragion di vita scaturisce da ciò che amiamo fare è il punto di partenza da meditare nelle profondità silenti del nostro Natale.

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Anche in quel mattino graffiante di freddo l’uomo se ne stava lì, immobile, seduto per terra all’ingresso della chiesa di Santa Maria Crocifissa Di Rosa. Non chiedeva nulla. Ai suoi piedi un piattino di plastica rosicchiato dal tempo conteneva qualche 100 Lire. 

Alta, capelli candidi racchiusi in un crocchio elegante, lungo loden tirolese, l’affascinante signora in quella chiesa ci andava ogni mattina alla prima messa e la presenza del clochard dalla barba lunga, gli occhi miti e l’età indefinibile, suscitava in lei mille interrogativi.

«Bisogna io faccia qualcosa per lui - mi disse una sera con lo sguardo acceso da uno dei suoi pericolosi entusiasmi - e se gli procurassi un roulotte?»

Io:«Al limite un camper che non ha bisogno della macchina».

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Forse se lo sentiva, Luigi Lucchi, che non ci sarebbe arrivato a questo Natale per lui un po’ triste. Sarebbe stato infatti, dopo 15 anni, il primo da ex Sindaco di Berceto.

Niente consueta Ordinanza natalizia: «Guardate tutto il Bello che c’è nelle persone! Riempite di gioia tutti quelli che incontrate».

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Ci sono parole che si scrivono senza sapere il perché. Semplicemente arrivano. È quanto è successo a Paola Brighenti che, una mattina, si è svegliata con l’impulso di riscrivere in chiave moderna alcune pagine del Vangelo. Per i dieci giorni successivi la scrittrice si è ritrovata immersa nella sua e nostra «spesso inconsapevole ricerca di infinito, umano, insopprimibile bisogno di amore». 

D’altronde, scrive nel suo libro “Dalla Parola alle parole” (Arpeggio Libero Ed.), «anche se i contesti sono così differenti, non sono mutate le esigenze spirituali» e oggi come allora l’essere umano, senza amore, non è niente.

Ecco allora che Paola, nel suo immedesimarsi in «quell’io che era l’interlocutore al quale Dio si rivolgeva» ci fa sentire come il pastore che adora Gesù bambino, Bartimeo il cieco, Zaccheo il peccatore, Maria di Magdala, Tommaso o, nel racconto «Invisibile presenza», i discepoli di Emmaus. È quest’ultima la storia di due fratelli che perdono il padre all’improvviso. 

«Incrociarono lo sguardo. Per un attimo. E negli occhi smarriti Francesco e Giorgio riconobbero lo stesso acuto dolore, la stessa angosciosa domanda: E adesso? Poi ci furono gli abbracci, le strette di mano dei parenti, degli amici, del personale della ditta. Gesti automatici, perfino sorrisi, tutto compiuto come in sogno, in una recita dal copione già scritto».

Nello svolgersi degli eventi che seguono i due ragazzi, come i discepoli di Emmaus, imparano a riconoscere la figura viva del padre comprendendo di averlo cercato nel modo sbagliato; «Lui non era fuori», ma presenza invisibile dentro di loro. «Toccava a loro renderla visibile».

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Era iscritto all’I.T.I.S Castelli l’adolescente dai capelli lunghi un metro, ma disertava quasi sempre l’aula per girovagare in città. Non aveva vizi né dipendenze fatta eccezione per l’indomita urgenza di respirare il cielo. Era un bisogno sconfinato, il suo, che le pareti scolastiche non riuscivano a contenere.

Alla seconda bocciatura fu iscritto alla Scuola Bottega e mandato a imparare il mestiere del pasticcere in un laboratorio a pochi metri da casa.

Marco iniziò a frequentare scuola e bottega ma, di lì a poco, riprese a sgambare per la città avendo cura, prima di tornare a casa, di sporcarsi di farina o di marmellata. Il trucco funzionò finché suo padre non lo scoprì e, con un silente e secco pugno in faccia, lo rispedì ai suoi doveri.

Per qualche giorno, sotto il controllo serrato di un’insegnante, Marco filò dritto ma, non appena la profe allentò la stretta, riprese il largo come un pirata che, con il vento in poppa, vive di libertà.

Il ragazzo era così, incontenibile e indomabile, e mi chiedo quale trasformazione alchemica l’abbia portato, oggi, a vivere tutto il giorno (e se deve seguire la lievitazione con pasta madre delle sue creazioni anche tutta notte) fra le pareti del laboratorio della pasticceria di Sarezzo dove la gestazione di una brioche dura tre giorni e di un panettone due. 

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Terry si è rotta il femore. Perfetto.

Siamo infatti qui per godere di ogni istante, in modo particolare nell’autunno del nostro cammino quando, con l’inverno inesorabile alle porte, non possiamo rischiare di morire senza aver vissuto bene.

Come si fa? «Non essere sempre centrati sulla gestione della paura e dell’autodifesa per via degli orrori che il mondo ci scarica addosso - dice Don Rinaldo Bellini - ma spendere talmente bene il nostro tempo, da farci trovare costantemente intenti a vivere e non a sopravvivere così che, quando la morte arriverà, possa non sorprenderci».

L’importante è non peccare, cioè non «mancare il bersaglio» dell’esistenza che, in ultima analisi, è non riuscire a percepire l’amore (da a-mors, assenza di morte) nel quale siamo immersi.

Il nostro tesoro, infatti, è proprio ciò che ci rotola addosso ogni giorno anche quando la paura o la sofferenza non ce lo fanno percepire come tale. 

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Avete notato? Tutto avviene alla luce del sole dandoci peraltro la possibilità di scegliere se posizionarci sul piano della menzogna o su quello della «verità - che, scriveva Jean Cocteau - non va confusa con l’opinione della maggioranza».

Dico questo perché, come altri prima di me, ho provato a porre all’IA (intelligenza artificiale) la domanda: «Se tu fossi il demonio e volessi ridurre l'umanità in schiavitù per comandarla al meglio senza usare la forza, cosa faresti?» 

Ecco il riassunto delle strategie del «diaballo divisore»: «Adotterei una strategia subdola basata sulla manipolazione psicologica, culturale ed economica:

-fomentando conflitti ideologici, politici, razziali e religiosi: una società frammentata è più facile da controllare;

-offrendo la promessa di una vita comoda e facile attraverso tecnologia e consumo sfrenato: più le persone si affidano al piacere immediato e superficiale, più perdono libertà e capacità critica;

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In questo giorno dedicato alla commemorazione di coloro che sono già partiti per il «grande viaggio» e che immagino felici al sole su una meravigliosa isola in attesa che li raggiungiamo, le parole di Rudolf Steiner inondano il mio e nostro cuore aiutandoci a comprendere la natura del traguardo che tutti ci attende.

«Vista dal mondo fisico - afferma Steiner - la morte ha certamente molti aspetti dolorosi» perché la vediamo solo da un lato. «Quando però si è morti, la si vede dall'altro lato. Lì essa è l'evento più gratificante, più completo che si possa vivere, perché lì essa è una realtà vivente.

Ciò che conta è che noi impariamo a percepire che colui che è passato attraverso la soglia della morte, ha soltanto assunto un'altra forma di vita.

E dopo la morte si trova, per il nostro sentire, come uno che, per i casi della vita, abbia dovuto recarsi in un paese lontano nel quale noi potremo raggiungerlo solo più tardi. Cosicché noi non abbiamo altro da sopportare che un tempo di separazione.

Ma questo deve venir percepito vivamente attraverso la scienza dello spirito».

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Il concerto sta per iniziare. Titolo: Tutte le sfumature della tristezza. Lei, Paola Volpi (violino) ha 18 anni, la stessa età delle centinaia di ragazzi che riempiono l’Auditorium dell’Istituto Battisti di Salò.

Lui, Matteo Perlin (pianoforte), ne ha 21. Paola a giugno conseguirà il diploma al liceo e un mese dopo la laurea al conservatorio. Matteo quest’anno si laureerà in pianoforte e nel suo sogno: direzione d’orchestra.

Sul palco a presentarli c’è il presidente dell’Associazione ‘Amici della Musica’ Bruno Marelli che, con il programma in mano che prevede pezzi di Brahms, Bruni e Falloni, si chiede: “La musica è ottima, ma i ragazzi sapranno apprezzarla? C’è una distanza abissale tra le vette di creatività e virtuosismo che stanno per ascoltare e le loro canzoni abituali. Devo prepararli”.

Bruno inforca il microfono: «Ragazzi, per voi questa è un'occasione per ascoltare qualcosa di straordinario, oltre che per saltare due ore di scuola». Applauso. «Per quanti quello di stamattina, quest’anno, è il primo concerto di musica classica?» Forte brusio e mani quasi tutte alzate. 

«Non c’è alcun giudizio - precisa Bruno - va bene che ognuno segua le proprie passioni, come del resto i vostri coetanei che suoneranno tra poco. Oggi vi farete un’idea di cosa sia la musica classica. Vi suggerisco di non pensare alle note, ma di sentire l’effetto che producono in voi. Mettetevi comodi, se credete chiudete gli occhi. Soprattutto ascoltate voi stessi».

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Poi succede che, nell’autunno della vita, abbiamo la stessa voglia di sperimentare il mondo perché dentro, noi, siamo sempre lo stesso eterno Sè, solo che non lo sappiamo; pensiamo di essere corpo che si deteriora, pensieri che intasano la mente, emozioni accatastate sul cuore e non ci rendiamo conto dell’enormità che siamo.

Adoro come Albert Camus descrive questa condizione quando scrive: “La tragedia della vecchiaia non è che uno è vecchio, ma che uno è giovane. Dentro questo corpo che invecchia c'è un cuore ancora così curioso, così affamato, ancora pieno di desiderio come lo era in gioventù.

Mi siedo vicino alla finestra e guardo il mondo passare sentendomi un estraneo in una terra straniera incapace di relazionarmi con il mondo esterno, mentre dentro di me brucia lo stesso fuoco che una volta pensava di poter conquistare il mondo; e la vera tragedia è che il mondo è ancora così distante e sfuggente, un luogo che non sono mai riuscito a cogliere del tutto”. 

È della tragedia di non cogliere del tutto il senso dell'esistenza che ci racconta l’autunno con il suo mostrarci che lasciar andare il vecchio in ogni situazione è indispensabile affinché il nuovo si manifesti. L’alternativa è continuare a calpestare il suolo cercando di ignorare il soffuso malessere che pensieri stantii ed emozioni macere generano in noi.

Le foglie continueranno comunque a cadere davanti ai nostri occhi.

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Avanti e indietro. Indietro e avanti. La donna non nuota. Il suo è uno strano sfarfallare di mani e gambe a zig zag lungo la piscina comunale. Il suo volto irradia entusiasmo. I movimenti spruzzano gioia. Il fucsia acceso di cuffia e rossetto risaltano sulla pelle ambrata. I grandi occhi scuri spuntano da un ciuffo ribelle di capelli biondi.

Anche Cristina è in acqua e, nuotando a dorso, urta la donna e «Scusa, ti ho fatto male?» le chiede. «Tu fatto niente. Io no capace nuotare. Io provo» risponde felice l'aspirante nuotatrice.

Lo scontro si fa dialogo e Cristina scopre che la compagna di corsia si chiama Samira e che sta coronando il suo più grande desiderio: imparare a nuotare. Viene dal Marocco dove quel sogno le è stato precluso e ora che è in Italia, oltre a frequentare un corso in piscina, si allena da sola prima di andare al lavoro.

Promessa sposa nel suo paese ad un uomo che le faceva ribrezzo, Samira racconta di aver subito, nei 30 anni di matrimonio, numerose violenze. Poi, raggiante, esclama: «Ma io fatto separazione! Io adesso sto bene. Io ora imparare a nuotare».

Nei giorni a seguire Samira confida a Cristina alcuni episodi terribili della sua storia culminati, quattro anni fa, con il suicidio della figlia. Nel parlarne si commuove e trova conforto nell’abbraccio spontaneo della nuova amica; è stato dopo la morte della ragazza che ha trovato il coraggio, racconta, di lasciare il marito perché quell’esistenza disumana, dalla quale la figlia era fuggita in modo tragicamente definitivo, potesse conoscere una diversa liberazione.

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«Come hai fatto a smettere di odiarla?» chiedo a Sonia. «Non è che la odiassi, diciamo che ogni volta che apriva bocca mi faceva imbestialire - risponde sorridendo - D’altronde lo sai come siamo cresciute: Gemma sempre gelosa di me, poi invidiosa, hai presente quante me ne faceva?»

«Ricordo quella volta che abbiamo bruciato scuola e lei ci ha fatto ‘tanare’».

«Esatto. Riversava su di me le sue frustrazioni di figlia maggiore spodestata dal trono per colpa mia».

«Anche con le scorrettezze ereditarie ci ha dato dentro non poco; come hai fatto a perdonarla?»

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Era uno di quei giorni d’inizio autunno con il cielo un po’ confuso sul da farsi e il sole luccicoso che giocherellava con le onde della Versilia.

Il ristorante take away costruito in una serra fronte mare iniziava a riempirsi e Loretta era tornata dal bancone delle ordinazioni portandoci tre insalate di mare che ancora raccontavano l’estate.

Le chiacchiere condite di risate spaziavano dai minimi ai massimi sistemi in un apparente caos che, quel giorno, ci portò ad un punto che fece la differenza.

L’antefatto: quando Loretta era andata a ordinare due insalate di mare e un totano, essendo il totano esaurito, aveva ipotizzato di poterlo sostituire con il cous cous «ma vado a verificarlo» aveva detto e, corsa da noi, era tornata dalla ragazza che la stava servendo esclamando: «Niente cous cous ma una terza insalata».

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“Arriva sempre prima o poi il giorno in cui non puoi più far finta di niente. Il mal di vivere ti sta sommergendo. Devi fare qualcosa - racconta Susy Bombana nel suo libro ‘Spirit’ - Mi sento un sacco vuoto dove nemmeno il nulla trova spazio.

Ho 53 anni e sulle spalle porto di tutto”. Per uscire dall’impasse Susy decide di calpestare un tratto del Cammino di Santiago.

Il primo giorno, sovrastata da fatica ed emozioni, si sente male. “Entro in un bar, inizia a girarmi la testa, mi siedo”. La donna perde i sensi e, mentre cercano invano di rianimarla, viene attraversata da una scarica elettrica. È un tuono fortissimo che la porta via.

“Sono entrata in un tunnel, un canale di luce bianca, calda, corposa - racconta - Era una bellissima sensazione. In un attimo ero in un altro luogo. La luce mi stava travolgendo con la dolcezza del suo calore. Leggera come una piuma volavo sulla testa delle persone che in quel momento erano all’interno del locale preoccupate per un corpo riverso a terra”.

Susy sentiva urli, tristezza e parole a lei incomprensibili e avrebbe desiderato dir loro che stava bene, ma dalla bocca non le usciva alcun suono. 

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«Ricordo ancora il suo nome, Nicole - racconta Sean - Stavo facendo un anno di università all’estero e nel mio team c’era una ragazza molto attraente di 21 anni dagli occhi grandi e rotondi».

Come sempre succede in queste circostanze, terminato il lavoro di gruppo, Sean e colleghi scambiavano quattro chiacchiere avendo così modo di conoscersi meglio.

In seguito, continua Sean «Nicole cominciò a sedersi sempre al mio fianco e, anche se cambiavo posto, lei mi raggiungeva. A quanto pare la mia fede al dito non la condizionava affatto».

Ogni volta che Nicole si avvicinava a Sean, lui provava una sensazione mista di dolore e piacere insieme, ma se da un lato l’uomo sentiva la sua coscienza mettersi in allerta, dall’altro «parlare con lei mi appagava - ammette - Nicole aveva un bel modo di fare, era interessante e dannatamente attraente. 

D’altronde non sono un santo e l’essere sposato non ti trasforma d’emblée in un fedele robot.

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