Bianca Brotto

Diffondiamo Bellezza

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biancabrotto

biancabrotto

Amo la vita, sempre, anche quando non la capisco, anche quando soffro, ancor di più quando esplodo di gioia; trovo sia un’avventura straordinaria che si rinnova ogni giorno, al sorgere del sole.


Suono di rado, ma con amore, il pianoforte e canto mentre guido. Non ho tempo per le frequentazioni sterili, ma non guardo l’orologio quando un amico ha bisogno di me; l’amicizia è un dono meraviglioso e mi ha salvato la vita.

Mi piace leggere, lasciarmi rapire dai notturni di Chopin e riempirmi con un bel film.


Adoro il fuoco, la fiamma viva, il calore che mi trasmette. Amo viaggiare e vivere le emozioni della natura, dell’arte e degli incontri inattesi. Quando posso fuggo all’isola d’Elba dove, nell’incedere lento e potente del mare, mi rigenero.



Non mi annoio mai, trovo che il semplice esistere nel presente sia entusiasmante.

Posted by on in DIFFONDERE IL BENE

Avanti e indietro. Indietro e avanti. La donna non nuota. Il suo è uno strano sfarfallare di mani e gambe a zig zag lungo la piscina comunale. Il suo volto irradia entusiasmo. I movimenti spruzzano gioia. Il fucsia acceso di cuffia e rossetto risaltano sulla pelle ambrata. I grandi occhi scuri spuntano da un ciuffo ribelle di capelli biondi.

Anche Cristina è in acqua e, nuotando a dorso, urta la donna e «Scusa, ti ho fatto male?» le chiede. «Tu fatto niente. Io no capace nuotare. Io provo» risponde felice l'aspirante nuotatrice.

Lo scontro si fa dialogo e Cristina scopre che la compagna di corsia si chiama Samira e che sta coronando il suo più grande desiderio: imparare a nuotare. Viene dal Marocco dove quel sogno le è stato precluso e ora che è in Italia, oltre a frequentare un corso in piscina, si allena da sola prima di andare al lavoro.

Promessa sposa nel suo paese ad un uomo che le faceva ribrezzo, Samira racconta di aver subito, nei 30 anni di matrimonio, numerose violenze. Poi, raggiante, esclama: «Ma io fatto separazione! Io adesso sto bene. Io ora imparare a nuotare».

Nei giorni a seguire Samira confida a Cristina alcuni episodi terribili della sua storia culminati, quattro anni fa, con il suicidio della figlia. Nel parlarne si commuove e trova conforto nell’abbraccio spontaneo della nuova amica; è stato dopo la morte della ragazza che ha trovato il coraggio, racconta, di lasciare il marito perché quell’esistenza disumana, dalla quale la figlia era fuggita in modo tragicamente definitivo, potesse conoscere una diversa liberazione.

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Posted by on in DIFFONDERE IL BENE

 

«Come hai fatto a smettere di odiarla?» chiedo a Sonia. «Non è che la odiassi, diciamo che ogni volta che apriva bocca mi faceva imbestialire - risponde sorridendo - D’altronde lo sai come siamo cresciute: Gemma sempre gelosa di me, poi invidiosa, hai presente quante me ne faceva?»

«Ricordo quella volta che abbiamo bruciato scuola e lei ci ha fatto ‘tanare’».

«Esatto. Riversava su di me le sue frustrazioni di figlia maggiore spodestata dal trono per colpa mia».

«Anche con le scorrettezze ereditarie ci ha dato dentro non poco; come hai fatto a perdonarla?»

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Posted by on in PAROLE BELLE

Era uno di quei giorni d’inizio autunno con il cielo un po’ confuso sul da farsi e il sole luccicoso che giocherellava con le onde della Versilia.

Il ristorante take away costruito in una serra fronte mare iniziava a riempirsi e Loretta era tornata dal bancone delle ordinazioni portandoci tre insalate di mare che ancora raccontavano l’estate.

Le chiacchiere condite di risate spaziavano dai minimi ai massimi sistemi in un apparente caos che, quel giorno, ci portò ad un punto che fece la differenza.

L’antefatto: quando Loretta era andata a ordinare due insalate di mare e un totano, essendo il totano esaurito, aveva ipotizzato di poterlo sostituire con il cous cous «ma vado a verificarlo» aveva detto e, corsa da noi, era tornata dalla ragazza che la stava servendo esclamando: «Niente cous cous ma una terza insalata».

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Posted by on in NUOVI ORIZZONTI

“Arriva sempre prima o poi il giorno in cui non puoi più far finta di niente. Il mal di vivere ti sta sommergendo. Devi fare qualcosa - racconta Susy Bombana nel suo libro ‘Spirit’ - Mi sento un sacco vuoto dove nemmeno il nulla trova spazio.

Ho 53 anni e sulle spalle porto di tutto”. Per uscire dall’impasse Susy decide di calpestare un tratto del Cammino di Santiago.

Il primo giorno, sovrastata da fatica ed emozioni, si sente male. “Entro in un bar, inizia a girarmi la testa, mi siedo”. La donna perde i sensi e, mentre cercano invano di rianimarla, viene attraversata da una scarica elettrica. È un tuono fortissimo che la porta via.

“Sono entrata in un tunnel, un canale di luce bianca, calda, corposa - racconta - Era una bellissima sensazione. In un attimo ero in un altro luogo. La luce mi stava travolgendo con la dolcezza del suo calore. Leggera come una piuma volavo sulla testa delle persone che in quel momento erano all’interno del locale preoccupate per un corpo riverso a terra”.

Susy sentiva urli, tristezza e parole a lei incomprensibili e avrebbe desiderato dir loro che stava bene, ma dalla bocca non le usciva alcun suono. 

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«Ricordo ancora il suo nome, Nicole - racconta Sean - Stavo facendo un anno di università all’estero e nel mio team c’era una ragazza molto attraente di 21 anni dagli occhi grandi e rotondi».

Come sempre succede in queste circostanze, terminato il lavoro di gruppo, Sean e colleghi scambiavano quattro chiacchiere avendo così modo di conoscersi meglio.

In seguito, continua Sean «Nicole cominciò a sedersi sempre al mio fianco e, anche se cambiavo posto, lei mi raggiungeva. A quanto pare la mia fede al dito non la condizionava affatto».

Ogni volta che Nicole si avvicinava a Sean, lui provava una sensazione mista di dolore e piacere insieme, ma se da un lato l’uomo sentiva la sua coscienza mettersi in allerta, dall’altro «parlare con lei mi appagava - ammette - Nicole aveva un bel modo di fare, era interessante e dannatamente attraente. 

D’altronde non sono un santo e l’essere sposato non ti trasforma d’emblée in un fedele robot.

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È lunedì 19 agosto, un giorno qualsiasi di una settimana qualsiasi. Valeria è appena uscita dal supermercato di Rho quando, avvicinandosi alla macchina, trova sul parabrezza un regalo.

Il primo pensiero è che si tratti di uno sbaglio e io mi chiedo: perché? Non siamo forse creature meravigliose che si meritano tutto il bene del mondo?

Se non ci sentiamo tali facciamoci qualche domanda prima di tornare da Valeria per leggere insieme a lei il biglietto incollato sul pacchetto che recita:

“Ciao, questo libro è per te! Amo leggere, odio buttare i libri e casa mia è piccola, quindi ho deciso di ‘salutarli’ così. Se non lo vuoi, per favore, non buttarlo. Lascialo su una panchina, su un’auto o in metropolitana. Magari qualcuno lo sta aspettando. Buona lettura”. 

Nessuna firma né dettaglio per risalire al mittente. Valeria scarta l’involto e si ritrova fra le mani il romanzo “Una piccola lavanderia a Yeonnam” di Kim Jiyun con, in copertina, la frase: “A volte basta un gesto gentile per ritrovare la felicità”. Esatto!

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Il tempo non esiste più. Succede quando il cuore zittisce la mente e, balzato al comando, agisce. Sono istanti di vita nei quali, in totale assenza di pensiero, sappiamo benissimo cosa fare. È allora che l’immensità umana e divina che siamo si manifesta. Un fatto accaduto alcuni decenni fa ce lo racconta magistralmente.

La barca era in mare a pochi metri dalla bocca del porto piccolo di Siracusa, a bordo c’era il famoso apneista Enzo Maiorca con le due figlie anch’esse detentrici di svariati record di apnea. All’improvviso i tre, uditi strani rumori, notarono un delfino che stava roteando vorticosamente attorno al loro scafo.

Il racconto di Enzo: «Solitamente l’incontro con un delfino suscita nell’uomo un senso di felicità, ma quel giorno l’animale ci infliggeva solo angoscia e paura.

Eravamo in costume da bagno e, calzate maschera, pinne e assicurato un coltello alla gamba, ci tuffammo subito in mare senza nemmeno indossare la nostra pelle da subacquei». 

Il delfino si allontanò verso il largo girandosi di continuo per controllare di essere seguito.

Raggiunto un punto, l’animale diede un ultimo sguardo indietro e si immerse. «Arrivati anche noi sulla sua verticale, vedemmo ad una quindicina di metri di profondità un informe fagotto grigiastro.

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“Ci sono due parole che non dovremmo mai pronunciare nella nostra vita di coppia: la prima è la parola colpa” leggo nel prezioso libretto "Sfogliando le margherite nella coppia” della Dott.ssa Elsa Belotti.

Nella relazione a due infatti, spiega la psicologa e pedagoga che di coppie ne ha viste a migliaia, tutto succede con il contributo in ugual misura di entrambi. La maggioranza dei litigi se ne andrebbe se, afferma Elsa, di fronte a un accadimento i due si chiedessero: qual è il mio 50% in questa vicenda?

Perché sfogliare un libro di margherite? Perché i piccoli dettagli quotidiani sono come i fiori più semplici, quelli che non vediamo ma che, pagina dopo pagina, ci possono sostenere e condurre, con leggerezza, ad una profonda riflessione sia come singoli sia come coppia.

Da dove si parte?

Dal chiederci in ogni situazione: cosa ci sta succedendo e perché.

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Mi coglie di sorpresa il dialogo di Benedetto con il grande faggio preoccupato per l’edera che opprime il bosco. L’albero sussurra: «Alcuni fratelli sono soffocati al punto da non essere più riconoscibili».

Il ventiquattrenne riflette: «Non siete i soli - afferma - l’edera che si abbarbica sulle vostre cortecce cresce anche su noi umani; nel nostro caso è rappresentata dalle convenzioni familiari e sociali che stringono e co-stringono la nostra essenza individuale».

Il ragazzo decide di aiutare i verdi amici recidendo i vegetali parassiti che infestano i loro tronchi. La gratitudine del faggio si fa parola: «Il tempo che dedicherai a strappare l’edera dai miei compagni lo dedicherai a te stesso concedendoti il tempo di sentirti» perché liberare gli altri è il punto di partenza per vedere le proprie costrizioni, quelle che lentamente ci immobilizzano. 

Benedetto Magri, insieme a Sofia Mazzola, Patrizia Chirola, Sabrina Galli e Carlotta Bontempi, ha organizzato una mostra per far comprendere, con l’utilizzo della fotografia, della scultura, del colore, della parola e della musica, che esistono condizionamenti interiori che, come edere avvinghiate alla pelle, ci influenzano nelle azioni di ogni giorno.

D’altronde l’abbiamo provato tutti il fastidio di una benda troppo stretta e Benedetto, con determinazione e occhi limpidi sprofondati di cielo, si serve dell’arte per mettere in scena, insieme agli altri artisti, il sollievo di toglierci di dosso ciò che non ci appartiene.

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«Proviamo a vedere alcune ‘cose’ in chiave prosaica e poetica - racconta Stefano Piroddi che, ad un gruppo di ragazzini, aveva chiesto di cercare sul web la parola ‘stella’ - I ragazzi lessero: “Agglomerati di gas che…”.

Questa è la definizione scientifica, ma quando rivolsero il quesito a Confucio, costui disse: Le stelle? Fori nel cielo attraverso i quali filtra la luce dell’infinito».

Lo scrittore cagliaritano aveva in seguito posto loro la stessa domanda in riferimento alla parola ‘rugiada che sul web veniva descritta come “una precipitazione atmosferica in forma liquida che…” e che Jim Morrison, musicista poeta, «definì: Le lacrime di gioia di un fiore al risveglio del mattino». 

Notando che le definizioni poetiche avevano emozionato i ragazzi, Stefano aveva concluso:

«Ecco come si governa l’invisibile, andando a trovare e valorizzare il lato poetico dell’esistenza che, dal più piccolo ciuffo d'erba alla più grande e importante delle stelle dell’universo, ha in sé un lato materiale esprimibile in termini prosaici e un lato spirituale esprimibile solo in termini poetici.

La spiritualità non è la religione, ma la poesia con cui definisci te stesso in rapporto all'essenza poetica di ciò con cui ti relazioni».

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Brescia, inverno 2019. «Ci sono momenti nella vita nei quali ti senti proprio a terra. Mancavano due giorni al mio settantunesimo compleanno ed ero abbattuta, ma non certo per l’avanzare dell’età; fisicamente stavo bene, avevo interessi e affetti ma, nel profondo, ero angosciata»

ricorda Giuliana sulla quale in quei giorni pesavano, oltre alla morte dell’unico fratello e dell’amica Iris, i problemi dei figli. «Stavo cercando di silenziare il mio dolore quando suonò il postino. Non aspettavo niente. Scesi al volo le scale». 

Giuliana si ritrova fra le mani una bella busta senza mittente «delle dimensioni di un libro con scritto il mio nome, il cognome da nubile e da sposata, addirittura il titolo accademico. Mi incuriosii. Il cuore batteva forte. 

All’interno c’era un album, stile anni ’50, con il disegno sulla copertina di uno sciatore stilizzato. Lo aprii.

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Anche se non studiamo Psicosintesi, dovremmo farlo anche noi, ogni anno, l’esame di crescita personale per verificare a che punto siamo della nostra evoluzione.

Da piccoli ci hanno controllati per vedere se aumentavamo di peso e altezza, in seguito gli insegnanti hanno verificato la nostra preparazione per promuoverci o meno alla classe successiva ma, per ciò che non era fisico o mentale, siamo stati per lo più lasciati liberi di monitorarci in autonomia. 

Ce l’abbiamo fatta? Ho qualche dubbio.

Sarebbe stato più facile se, a scuola o a casa, ci avessero abituati a interpretare, con il nostro sentire, i fatti quotidiani e a tenere un diario di crescita interiore sul quale annotare le lezioni di vita apprese da esporre in classe o in famiglia a fine anno. 

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È successo sabato scorso, ma Bea non riesce a scollarselo di dosso, quel “momento”. E quel grazie profondo. La giornata era stata da centrifuga, senza una pausa né tempo per dormire a sufficienza.

La donna rincorreva da tempo la data di consegna di un lavoro con vette lodevoli di produttività e calpestio quotidiano di sé.

Qualche settimana prima la vita le aveva già urlato “Rallenta!” facendola cadere ma lei, a parte camminare più lentamente per il dolore al ginocchio, aveva continuato a correre lungo la ruota cricetica del dovere. Il “momento” fu il secondo avviso.

È sera. La provinciale corre dritta lungo il filare dei pini marittimi. Bea sta guidando verso casa dove, finalmente, riposerà.

Ha le palpebre pesanti, un paio di chilometri la separano dal suo letto e dal “momento” in cui tutto si spegne e lei si addormenta al volante.

Quando riapre gli occhi è sulla corsia opposta.

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Sulle prime non sapevo perché la storia di Carlo Acutis mi avesse così profondamente colpito, ma poi ho compreso: Carlo non solo si era posto fin da piccolo la domanda su quale fosse il senso della sua vita, ma aveva anche trovato una risposta.

Bambino vivace, simpatico, appassionato di animali, sport e computer, era sempre disponibile verso chi incontrava, conosciuto o sconosciuto che fosse. La fonte dell’amore che viveva e irradiava risiedeva nel suo alimento quotidiano: l’Eucarestia. 

Aveva sette anni quando, ricevendola, scoprì in quel sacramento una sorgente inesauribile di gioia e di conforto. «Com’è possibile - si chiedeva - che davanti a un concerto rock o a una partita di calcio ci siano file interminabili di persone mentre davanti al Tabernacolo, dove è presente realmente Dio, dove impariamo a relazionarci con gli altri e ad affrontare con leggerezza tutto ciò che la vita ci porta, non succeda la stessa cosa?» 

L’Ostia di cui Carlo si cibava andando a messa ogni giorno era la sua «autostrada per il cielo» perché, diceva il futuro santo, «una vita è veramente bella solo se si arriva ad amare Dio sopra ogni cosa.

Per fare questo abbiamo bisogno dell’aiuto stesso di Dio, cioè dei Suoi sacramenti che ci aiutano a diventare chi potenzialmente già siamo». 

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Non è un risveglio uguale agli altri, questo, per Sonia che oggi festeggia 65 primavere. La donna, oltre a incontrare per pranzo i suoi cari, si regalerà un caffé con Carla, ma non di primo mattino.

L’amica di sempre, infatti, a quell’ora accompagna il marito al mercato dell’antiquariato di Roncadelle. Mentre Sonia indugia in questi pensieri, Carla e Gianni stanno già girovagando fra le bancarelle del tempo che fu dove l’uomo trova sempre qualcosa di interessante. 

Quel giorno sono alcune fotografie ad attrarre la sua attenzione; le scova in una scatola di cartone, ritraggono persone nate nei primi decenni del secolo scorso. Gianni osserva quei volti estinti, i loro occhi sembrano fissarlo. Istintivamente ne sceglie alcuni. 

Trovo curioso desiderare immagini di persone sconosciute e intrigante scoprire che nessuno di quei volti si ritroverà per caso fra le mani di chi li ha acquistati. 

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Torino. Piazza Castello. Stiamo con amici parlando di visitare un palazzo quando, davanti alla facciata della Chiesa di San Lorenzo, Francesca, puntando il dito sull’imponente portone verde, accenna ad una cupola che vale la pena d’essere vista. È questa fantasia della vita che mi affascina, perché la cupola di San Lorenzo, alta 55 metri e assolutamente meritevole, in realtà non c’entra niente: lì dentro qualcosa di ben più prezioso ci stava aspettando.

Varchiamo il portale e ci ritroviamo sbalzati dall’allegria esuberante della piazza al profondo silenzio che, a lasciarlo entrare, ci conduce in un mondo altro. La prima cappella, con l’altare dedicato all’Addolorata, è l’antica chiesetta (XII sec) di Santa Maria “ad praesepem” che il Duca Emanuele Filiberto di Savoia dedicò a San Lorenzo come ringraziamento per aver vinto i francesi il 10 agosto 1557 a San Quintino (battaglia che restituì ai Savoia Torino e gli altri territori).

A quel tempo Casa Savoia era da oltre cent’anni proprietaria della Sindone e il Duca, per abbreviare il cammino a Carlo Borromeo che aveva fatto voto di andare a piedi in Francia per onorare il Santo Sudario se la peste fosse cessata (cessò nel luglio 1557), portò la Sindone a Torino dove la ostese per la prima volta nell’ottobre del 1578 sull'altare dedicato a San Lorenzo. L'arcivescovo arrivò a piedi da Milano e, fin qui, è storia.

 

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Si chiama Carlo ed è un uomo straordinario. Potrei elencarne i successi, ma non è questo il punto; ciò che fa di lui un in-dividuo fuori dall’ordinario è l’essere, per l’appunto, non-diviso, cioè totalmente coerente con se stesso perché connesso alla sua anima. 

Da bambini siamo tutti collegati alla Fonte, ma poi ci sganciamo e riconnetterci è, o dovrebbe essere, il nostro scopo esistenziale. Grazie al “Campo di grano con volo di corvi” di Van Gogh, Carlo non si è mai disconnesso… sì perché tutto è iniziato da lì, da una rivista sfogliata per caso a sei anni e dall’immensità che gli si è riversata addosso nel percepire la forza dirompente di quell’immagine. 

Carlo l’ha ritagliato, quel nero alato correre su fili d’oro, un boato di gioia che lo deliziava e sconvolgeva al tempo stesso.

Fu il primo segno di un destino annunciato perché, con gli occhi in grado di vedere oltre la forma, Carlo ci era nato e osservando un quadro riusciva e riesce a cogliere l’emozione che l’ha originato intuendo altresì l’autenticità o la falsità dell’opera. Perché l’anima, la verità, la percepisce. Sempre.

Di cognome fa Pepi, è direttore della sezione reparto falsi e contraffazioni di Artwatch International di New York e, nel campo dell’arte, è un autodidatta che da sempre sgomina stuoli di critici grazie all’innato talento e alla passione che l’hanno portato a collezionare oltre 20mila opere appartenenti a 3500 artisti sia sconosciuti, ma meritevoli, sia conosciuti come Fattori, Lega, Viani, Viviani, De Chirico, Braque, Mirò, Wharrol, Vedova, Schifani, Fontana, Borrani, Picasso, Modigliani, Dalì.

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«Non ti dico il motivo, ma il 24 aprile devi assolutamente tornare a casa, aveva detto mia madre con tono misterioso» esclama raggiante Lia, studentessa in giurisprudenza e Dj Techno. 

L’antefatto. Sei mesi prima madre e figlia avevano trascorso qualche giorno a Pisa, in un agriturismo, dove erano state coccolate e affascinate dal giovane gestore con il quale avevano discorso di attualità e spiritualità.

«Un tipo sveglio, Nino, profondo e pure bello, anche lui appassionato di Techno» aveva commentato Lia.

Finita la vacanza, fatta eccezione per qualche like sui social, ognuno era tornato alla propria vita e il ricordo dell’incontro si era smaterializzato nei labirinti mentali.

24 aprile. Lia torna a casa e s’imbatte in Nino, ma non è finita qui: il ragazzo ha personalizzato per lei un “Chiodo”di pelle nera con la scritta ”If the music is too loud you're too old” (se la musica è troppo rumorosa tu sei troppo vecchio),

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Di Giancarlo sono gli occhi che mi restano dentro. Vivaci, limpidi, gioiosi.

Lo incontro in una magnifica conca della Valvestino che sembra sbucare dai boschi come si sbuca da una fiaba. La cascina di pietra dove il giovane abita è circondata da boschi e prati cosparsi di fiori. La scritta “benvenuti” campeggia sul cancello. La pace è totale. 

Con Giancarlo c’è Silvio, un bel vecchio, sguardo fiero, parole misurate all’essenziale, dignitosa serenità.

La storia.

Nel 2010 Silvio aveva 78 anni e abitava in questo sogno, che dista dal lago di Garda un’ora di auto e due ore di cammino, in compagnia di cavalli, capre, galline, conigli, cani e gatti.

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