Bianca Brotto

Diffondiamo Bellezza

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biancabrotto

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Amo la vita, sempre, anche quando non la capisco, anche quando soffro, ancor di più quando esplodo di gioia; trovo sia un’avventura straordinaria che si rinnova ogni giorno, al sorgere del sole.


Suono di rado, ma con amore, il pianoforte e canto mentre guido. Non ho tempo per le frequentazioni sterili, ma non guardo l’orologio quando un amico ha bisogno di me; l’amicizia è un dono meraviglioso e mi ha salvato la vita.

Mi piace leggere, lasciarmi rapire dai notturni di Chopin e riempirmi con un bel film.


Adoro il fuoco, la fiamma viva, il calore che mi trasmette. Amo viaggiare e vivere le emozioni della natura, dell’arte e degli incontri inattesi. Quando posso fuggo all’isola d’Elba dove, nell’incedere lento e potente del mare, mi rigenero.



Non mi annoio mai, trovo che il semplice esistere nel presente sia entusiasmante.

C’è un episodio della vita di Enrico, che ancora torna a trovarmi ogni volta che mi imbatto nei confini mentali che ci autocostruiamo; sarà per via di questi orizzonti talvolta limitati, mi chiedo, che non entriamo, come Enrico, in un’agenzia immobiliare per dichiarare che ci occorre una casa grande, preferibilmente isolata e con molto verde, bella o brutta non importa, ma soprattutto che non costi niente? 

Andò proprio così e, quel giorno, la reazione dell’agente alla richiesta del mio amico fu immediata: «Come, che non costi niente?»

«Certo! Ho venduto una fattoria in Germania e me la pagheranno a rate negli anni quindi non ho soldi, ma la casa mi serve subito» rispose Enrico. 

L’immobiliarista non vedeva soluzione, ma Enrico lo aiutò: «Non è così difficile, calcola che per me va bene anche una stazione ferroviaria abbandonata, o una vecchia scuola, un ufficio postale, un convento…».

Alla parola ‘convento’ il tipo si infervorò: «Ce n’è uno a venti chilometri da qui, ci abita solo un padre guardiano, ma lo stabile non è in buono stato» disse.

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Fa ancora freddo stamattina in Vaghezza, mentre i primi raggi del nuovo giorno raggiungono chiome e tronchi fra cori festosi di uccellini e scoiattoli furbissimi.

L’uomo che calpesta il sottobosco ha lo sguardo profondo del cerbiatto e la barba morbida del muschio che ricopre il lato nord dei tronchi.

I suoi pensieri riempiono l'aria, ma lui non lo sa; se solo sospettasse di essere percepito, zittirebbe la mente all’istante. Cammina, Fabio. Il suo incedere è preciso, come se nemmeno un passo fosse lasciato al caso. Si guarda attorno.

Nel bosco lui non sente la solitudine che prova a casa, perché gli alberi lo cingono in un abbraccio fraterno.

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Ha un paio di mutande tristi la donna che fa autostop sulla provinciale; me ne accorgo quando la faccio salire in auto perché i jeans che indossa sono così sformati da lasciarle scoperto metà sedere.

I grandi occhi azzurri, distanti fra loro, sembrano aver tirato il suo viso, le labbra rosse e gonfie, identiche nel colore ai capelli, si muovono di continuo. Lo sguardo, un tormento.

Sale prendendo velocemente posto al mio fianco. Si volta verso di me, non mi dice per dove le serva il passaggio come se la sua urgenza fosse un’altra. Subito chiede: «Hai una sigaretta?» e, prima ancora che io apra bocca, aggiunge «Che poi non fumo, sai?»

Le rispondo che non ne ho.

«Devo andare al Crociale di Manerba» dice.

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È la pugnalata, quella che ti fa male, quando ti fidi di qualcuno e questo qualcuno ti ferisce servendosi dell’inganno. Tu lo stai aiutando, lo stai addirittura salvando e lui utilizza questo suo star meglio per affondarti un pugnale nel petto. 

Chi vince? Sembra vittorioso chi pensa di farla franca, ma è solo il rimando apparente del mondo grossolano. Il vero vincente, in realtà, è chi subisce l’oltraggio. 

Roma. Sotto l’arco dei Cenci due ragazzi stanno litigando furiosamente. Siamo alle battute finali. Un giovane è a terra e l’altro, sopra di lui, sta per affondargli il pugnale nel petto. Lo ‘sdraiato’, da quella prospettiva, vede la Madonna con il Bambino dipinta sul poderoso arco incastonato fra i palazzi.

La visione sprigiona in lui parole inaspettate: “Ti prego - implora - in nome della Madonna, non uccidermi”. Sbalordito l’avversario si blocca, lascia cadere a terra l’arma e si china sul ragazzo per abbracciarlo ma costui, afferrato il coltello, proditoriamente lo ammazza. 

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Agosto 2016. Un amico che non sentivo da anni pronunciò una parola che non aveva nulla a che vedere con il camminare, ma che fece scattare in me un inconsulto imperativo: “Vai a calpestare un pezzo di Via Francigena”.

Non avevo mai intrapreso cammini, ma sette giorni dopo partii. Sbagliando scarpe e zaino, ovviamente.

Pensavo che la difficoltà del cammino fosse lo sforzo fisico dei chilometri. No. Il problema non è la fatica, ma il dolore ai piedi, alla schiena, alle spalle e ai fianchi.

Eppure si può avanzare con una tenaglia negli scarponcini che ti stritola le dita e decidere di portare l’attenzione sulla bellezza del paesaggio, come quando si soffre per una ferita che ancora sanguina, ma si alza lo sguardo per contemplare un gabbiano e il suo insegnarci a ‘volare alto’. 

Poi c’è lo zaino che, se contiene inutili zavorre, rende gravoso il procedere.

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Quanto non era all’estero, l’avvocato bazzicava con il suo macchinone sul lago di Garda per via di certi affari che seguiva con attenzione maniacale.

Immacolata camicia bianca, fisico asciutto e piglio serio, aveva il fascino del bel tipo sicuro di sé, la classe di un milord inglese e la profondità filosofica di discorsi mai banali.

Carla sul grande lago c’era nata 55 inverni prima e ora, con un divorzio alle spalle, i figli all’estero e un generoso conto in banca, sopravviveva alla noia grazie a shopping e bignè. Fino all’incontro con l’avvocato.

Fu per entrambi un colpo di fulmine. Immediata scattò la frequentazione che passò da romantiche cene a bordo lago, a colazioni con vassoi di bignè, da gite al Vittoriale, a soffusi racconti di lui sull’infanzia disagiata trascorsa in una casetta fuori dal mondo.

Quando l’uomo partiva per lavoro, le coccole da Montecarlo, come da Ginevra, viaggiavano via messaggio fino al suo ritorno, mai a mani vuote.

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“L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme.

Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più.

Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. 

Nel leggere questo scritto di Calvino, il racconto di un’amica mi scorre dentro, insieme all’acquamarina del suo sguardo: «Succedeva 15 anni fa mentre stavo traslocando - racconta - per andata ad abitare sulle colline vicino a un grande carpino.

Non era solo per avvicinarmi all’albero che mi spostavo, sai? In verità speravo che, abitando lassù, la mia vita, seppur con gli stessi attori, sarebbe cambiata.

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Seduti per terra su vaporosi cuscini rossi, quelle che sembravano chiacchiere fra cugini riuniti dai nonni per la consueta cena natalizia, furono semi gettati sul terreno fertile di un’esistenza che, da quel momento, cambiò.

Quella sera Antonia aveva raccontato dei suoi studi in una prestigiosa università romana, Gianni del suo primo impiego da neo laureato, Stefano, al quinto anno di liceo, del suo improponibile sogno di studiare alla Bocconi.

«Non arrenderti Ste, tu hai grosse capacità. Magari trovi una borsa di studio» avevano insistito i ragazzi.

Pochi giorni dopo, in macchina con la madre e il fratellino nel tragitto di ritorno verso Bari, Stefano disse che avrebbe voluto provare il test della Bocconi.

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Nasce con noi e si annida in qualche anfratto delle nostre cellule, il dubbio che la vita “non possa essere tutta qui” e mentre tagliamo traguardi socialmente degni di nota, quel tarlo nascosto nelle nostre profondità non ci molla e attende paziente l’occasione per uscire allo scoperto. 

Alexis Carrel, biologo e chirurgo francese insignito nel 1912 del premio Nobel per le scoperte sulle tecniche di sutura dei vasi sanguigni e i trapianti di tessuti e organi, “assorbito dagli studi scientifici, si era convinto che al di fuori del metodo positivo non esistesse certezza alcuna.

Rifugiato in un indulgente scetticismo, la ricerca delle essenze e delle cause gli sembrava vana e solo lo studio dei fenomeni, interessante.

Il razionalismo soddisfaceva interamente il suo spirito, ma nel fondo del suo cuore si celava una segreta sofferenza, la sensazione di soffocare in un cerchio troppo ristretto, il bisogno insaziabile di una certezza” sul senso della vita e della morte che razionalità e positivismo non riuscivano a fornirgli.

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Mentre Vobarno non ha ancora visto il sole e la ghiacciata Val Sabbia si appresta a vivere un nuovo giorno, Anna sta facendo rifornimento al self service della stazione di servizio.

Il suo portafoglio di pelle rossa, gonfio a dismisura, è appoggiato sul tetto della vettura insieme ad un pensiero: “Poi lo metto via”.

Nel vicino bar c’è un anziano che legge il Giornale di Brescia, una ragazza in minigonna dietro il bancone e profumo di caffè.

Mille idee accompagnano Anna in questo viaggio abitato dall’entusiasmo di un nuovo progetto. La pompa si blocca e la donna riparte insieme al suo sorriso che si allunga fino a Lavenone quando, alla cassa di un negozio, scopre di non avere il portafoglio.

Un improvviso flash le si accende dentro mostrandole il suo rubicondo tesoretto dimenticato sulla carrozzeria della macchina. Il cuore deraglia impazzito.

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Le due donne sono sedute in una pasticceria bresciana. Le festività natalizie stanno scollinando e per loro è tempo di bilanci.

“«Milva, senti, pensiamo al nostro Natale. Qualcuno ci ha stretto forte dicendoci dal profondo del cuore “Ti amo”? Intendo qualcuno di quelli importanti, tipo Giulio per te e mia madre per me?»

Una lacrima scivolò sulla guancia di Milva che veloce la asciugò sistemandosi i lunghi capelli castani con naturalezza. Veronica continuò: «Le feste, io le odio, perché sembrano obbligarci a essere felici, a essere famiglia.

Io ti ho detto che è stato bello e divertente, ed è vero, ma guardavo mia madre che aveva occhi e parole solo per Tommaso osannando il suo successo in Statistica - sorseggiò un goccio di caffè - e notare che ha preso diciotto al terzo tentativo.

Io mi sono laureata in tre anni e una sessione con centodieci e lode e mai, dico mai una volta (…) che mi abbia detto “Brava Veronica, sono orgogliosa di te”.

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Dopo aver lavorato in banca per anni, Bronnie decise, per un periodo della sua vita, di accompagnare i malati in fin di vita al traguardo finale, o iniziale a seconda del versante dal quale lo si guardi.

Dei suoi incontri mi ha colpito quello con Rosemary, una ex dirigente di una multinazionale che “aveva scalato la piramide aziendale fino ai livelli più alti molto prima che le donne occupassero questo tipo di posizione nel mondo del lavoro” racconta.

L’infelice matrimonio che la giovanissima Rosemary si era lasciata alle spalle le aveva indurito cuore e mente, trasformandola in una donna arrivista dal fare intimidatorio.

Adesso che la fine del viaggio stava arrivando, Rosemary, spaventata e sola, continuava ad attaccarsi tenacemente al suo fare dispotico facendo programmi per il futuro e respingendo chiunque le si avvicinasse.

“Non sopporto che tu sia sempre felice e che canti continuamente” disse un mattino a Bronnie.

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Dicembre è un mese accelerato, c’è tensione nell’aria, sta per consumarsi il dramma del Natale, lo si avverte nei discorsi e sul lavoro fin dai primi giorni. L’umanità sembra entrare in una centrifuga che la shakera e restituisce dopo l’Epifania, insieme a un sospiro di sollievo. 

È come se questa non fosse una notte, ma un crinale che divide l’anno fra il prima e il dopo stasera.

Il perché l’ho capito il mese scorso a Malta, una terra sferzata dal vento e abbracciata dal blu inchiostro del mare, uno Stato che filodiffonde musica per le strade addobbate, una Repubblica con 359 chiese attive su 315 Km2 di superficie, un territorio dalla profonda tradizione cattolica caratterizzato da un’economia avanzata e da grande religiosità ma, mio sentore, da assenza di spiritualità.

A Malta manca il cuore, un po’ come nella finzione di certi Natali (che non si vede l’ora che passino) tesi nell’allestimento di un palcoscenico dove si consumerà un evento troppo grande per trovar spazio nella piccolezza dei cuori umani, ma l’organizzazione del quale, nella cura della cornice di musiche e regali, nei sorrisi pitturati in volto e nelle parole di circostanza, potrà stemperare l’inconscio disagio dato dal non senso di tutto ciò.

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Cosa faccia Sergio ogni giorno dalle 11 e 30 a mezzogiorno non lo sa nessuno, in azienda. L’agenda condivisa con la segretaria e il personale segnala sempre un impegno marcato in rosso che, nel linguaggio interno, significa: non disturbare per alcun motivo.

Sono anni che quella mezz’ora intoccabile è oggetto di borbottii e illazioni. 

Ore 15. Macchinetta del caffè. Sergio sta bevendo una cioccolata calda quando arriva Antonio, un neo assunto che, con fare indifferente, gli chiede: «Tutto bene?» «Sì, grazie. Tu?» «Anch’io se non fosse per un tarlo che mi tiene sveglio pure di notte».

«Mi spiace» dice Sergio.

«Anche a me» sorride Antonio. Silenzio. Riprende: «Forse potrebbe aiutarmi».

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Natale si stava avvicinando e mentre le vetrine lo mostravano sfacciatamente, Fabio avrebbe voluto coniare una nuova parolaccia quotidiana o una scusa per non viverlo mai, quell’Avvento. Perché sarebbe stato l’ultimo. L’ultimo in quella casa. L’ultimo da uomo sposato.

Quel suo essere in procinto di recitare l’ultimo atto da marito era una novità di qualche giorno prima, quando la consorte gli aveva fatto recapitare dall’avvocato una sorprendente richiesta di separazione che l’avrebbe costretto a vivere gli anni a venire con un budget mensile da senzatetto.

Ma quel 10 dicembre, come se niente fosse, sarebbero arrivati i quattro figli, da anni fuori casa, per addobbare l’albero e lui aveva l’ordine di non dire nulla «per non rovinare le feste ai ragazzi» aveva sibilato lei. 

Fabio, uomo mite e incline all’obbedienza, si era attenuto al diktat, ma aveva altresì escogitato un piano confessato solo al gatto. Sapendo che da quel giorno ci sarebbe stato un viavai di nuore e nipoti per depositare i doni sotto le fronde, l’uomo aveva deciso di liberare il suo silente grido personalizzando gli addobbi.

L’albero venne così allestito fra risate e sorrisi ma, già da quella notte, si arricchì della minuscola scritta “Che palle!” tracciata da Fabio con il pennarello indelebile su una preziosa coppia di sfere antiche posizionate in alto.

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Posted by on in DIFFONDERE IL BENE

 

La Gilda di soldi non ne ha mai sprecati e non solo perché guadagnarli costa fatica, ma anche perché vanno accantonati per la vecchiaia quando la salute zoppicherà e «ci sarà anche - dice - da pagare il funerale».

Ha da 60 anni nel cassettone del soggiorno di rappresentanza, il servizio di piatti che le hanno regalato quando si è sposata con Piero: «Un servizio da 12» afferma compiaciuta mentre spolvera la mercanzia intonsa a fiori rossi e blu.

«Perché non lo usi?» chiedo.

«È troppo bello - esclama d’impeto - non voglio rischiare di rompere qualcosa». 

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Posted by on in VIVERE CON PASSIONE

La porta dello psicologo è spalancata quando sull’uscio compare una titubante biondina con la gonna corta e il sospetto addosso. L’uomo si alza dalla scrivania per andarle incontro con un sorriso che si fa spazio fra i peli ordinati della barba solo in apparenza incolta.

«Si sieda» le dice mentre chiude la porta.

Lisa si gira sulla difensiva con le braccia conserte: «Non mi va di stendermi».

«Ho detto si sieda» afferma lui accomodante e ben accomodato in un impeccabile abito grigio scuro con cravatta blu. 

«Come mai è qui?» esordisce lo psicoterapeuta.

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Posted by on in NUOVI ORIZZONTI

Non c’entra la statura, ma quello che uno ha all’interno di quel metro e cinquantotto di biologia umana, perché se lì dentro si annidano nugoli di esperienze catalogate come sconfitte, il bisogno inconscio di utilizzare un ruolo per sfogare le proprie frustrazioni, diventa incontenibile.

Ed eccoci in quinta liceo alle prese con una ragazza che per la profe Tarlo ha due colpe gravi da scontare: essere nata alta e bella. Non solo.

A volte l’adolescente, nella sua spontaneità, fa tremende gaffe, come quando riferisce all’insegnante, che di figli non ne ha, la frase pronunciata dalla vecchia maestra delle elementari in punto di morte

“L’esistenza acquisisce il suo pieno significato nella procreazione” o quando, a teatro, chiede alla profe, seduta dietro una poltrona vuota occupata dai cappotti: «Ci vede?»

suscitando nella donnina l’indignata risposta: «Va bene che sono bassa, ma non esageriamo! Questa me la lego al dito». 

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Questa è la storia di due gemelli che avevano deciso di incontrarsi una sola volta all’anno, e di quell’indimenticabile 7 febbraio.

Breve excursus storico: portati a Roma all’età di 12 anni per studiare (siamo nel 492 d.C.), i due fratelli videro la corruzione e la depravazione di quell’epoca successiva alla caduta dell’impero romano e, in seguito, decisero di ritirarsi dal mondo:

Benedetto visse alcuni anni da eremita e poi fondò l’Ordine dei Benedettini basato sulla ‘Sancta Regula' da lui stesso scritta e Scolastica, fattasi monaca, fondò il Monastero di Piumarola dove diede inizio all’Ordine Benedettino femminile.

Quel 7 febbraio del 547, giorno del loro incontro annuale in una casetta di Montecassino che si trovava a metà strada tra i loro due monasteri, Benedetto e Scolastica trascorsero la giornata a parlare di Dio e degli uomini nutrendosi della reciproca compagnia finché venne, insieme al tramonto, il momento di separarsi.

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È una morsa, a volte un cappio, la notte della solitudine, quando credi di non farcela e la mente ti assale, stringe e non molla; pensi e ripensi ma, ovunque vaghi, non scorgi via d’uscita perché tutte le porte sono bloccate dalla stessa parola-spranga: solitudine.

Cosa ci fa paura, in realtà? La solitudine dell’incontro con le nostre profondità perché “se guarderai a lungo nell'abisso, l'abisso guarderà dentro di te” (Nietzsche) o l’isolamento di quando siamo fisicamente disgiunti dagli altri?

Esiste davvero la separazione o è un’illusione? “Non è un’illusione” afferma la mente, “Sì che lo è” sussurra il cuore.

Il modo per superare il senso di isolamento dato dalla separazione che il nostro corpo fisico percepisce come reale, secondo Erich Fromm, è l'amore che lo psicologo e filosofo tedesco definisce come potere attivo che annulla le pareti che ci separano dai nostri simili e che tuttavia ci permette di essere noi stessi e di conservare la nostra integrità. 

Mi guardo attorno alla ricerca di questo potere attivo e allargo lo sguardo all’alba del nuovo giorno che pennella il cielo di rosa per poi tingerlo ancora in un crescendo infuocato fino allo scoppio finale, l’oro del sole,

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