Bianca Brotto

Diffondiamo Bellezza

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biancabrotto

biancabrotto

Amo la vita, sempre, anche quando non la capisco, anche quando soffro, ancor di più quando esplodo di gioia; trovo sia un’avventura straordinaria che si rinnova ogni giorno, al sorgere del sole.


Suono di rado, ma con amore, il pianoforte e canto mentre guido. Non ho tempo per le frequentazioni sterili, ma non guardo l’orologio quando un amico ha bisogno di me; l’amicizia è un dono meraviglioso e mi ha salvato la vita.

Mi piace leggere, lasciarmi rapire dai notturni di Chopin e riempirmi con un bel film.


Adoro il fuoco, la fiamma viva, il calore che mi trasmette. Amo viaggiare e vivere le emozioni della natura, dell’arte e degli incontri inattesi. Quando posso fuggo all’isola d’Elba dove, nell’incedere lento e potente del mare, mi rigenero.



Non mi annoio mai, trovo che il semplice esistere nel presente sia entusiasmante.

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Succede un mattino alle 6. Ti svegli. Il momento è arrivato. Sai che dovrai lasciare questo mondo. Te l’hanno detto ieri. È ancora buio, fuori. La luce della luna riempie il cielo. Le nuvole cangianti si muovono in una danza lenta. 

La scienza ti ha spiegato molte cose sui movimenti della luna e sul suo influenzare la natura e la vita sulla Terra; ti sei riempito di conoscenza, sei riuscito a svicolare dentro e fuori dalle situazioni più varie, fino a ieri, fino alla pronuncia della sentenza.

Adesso non sai più che fartene della cultura come dei tuoi beni perché, in questo infinito smarrimento, ci sei solo tu, e il tuo vagare inebriato da una sensazione nuova: la Vita!

Per la prima volta la senti senza distrazioni mentali, la Vita, e guardi la luna come non l’avevi mai guardata: sembra il sole della notte e non un corpo celeste che brilla di luce riflessa. Sembra te quando non sai Chi sei.

Il cielo è nero, stamattina, ma il bagliore della luna è ovunque, sulle nuvole radiose e sul grande albero che protende il suo braccio ombroso per raggiungerti.

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Quella di Dodo e di Paco è una storia vera. È Paco il primo a presentarsi: “Sono un cavallo da tiro, ma mi considero quasi un insegnante perché collaboro col professore nel far capire ai ragazzi come domare i cavalli, riconoscere i finimenti, eseguire una ferratura o una doma agli attacchi. Alle lezioni di anatomia e zoognostica mi metto immobile e mi lascio osservare”.

Paco abita nelle stalle di un Istituto Tecnico Agrario dove, un mattino, scopre di essere stato destinato al macello. Racconta: “Dovevo immaginare che sarebbe finita in questo modo; da qualche anno ormai sono, diciamo così, a mezzo servizio.

Non riesco più a fare quello che mi ha reso famoso. Ho dovuto dire addio alle numerose manifestazioni perché sono stato colpito da una forma di laminite, una malattia molto seria. E pensare che ero forte, e vincevo gare a non finire! Ma ora non posso più fingere con me stesso”.

Fra gli allievi della scuola c’è Dodo, un ragazzo discalculico che si sente diverso dai compagni, perché ha difficoltà con i numeri.

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Ti svegli. Il sole sta già inviando raggi splendenti sulla tua giornata, ma tu proprio non ce la fai ad alzarti. È per via del peso che ti porti addosso da quella mattina di qualche settimana fa, quando una grandinata di parole si è abbattuta sulla tua persona.

Oggi andrai ad ascoltare altre parole che, sai, potranno ferirti a morte. Non riesci a muoverti dal letto. Speri che succeda qualcosa, sei aperta a tutto, persino ad un’invasione di extraterrestri che potrebbe modificare la giornata che ti aspetta.

Si accende la radiosveglia, sono quindi le 8. La musica classica dipana per un attimo il groviglio imbizzarrito dei tuoi pensieri e poco dopo sono alcuni versi di Rumi a raggiungerti, grazie ad una voce che recita: “Vi è una candela nel tuo cuore, pronta per essere accesa. C’è un vuoto nella tua anima, pronto per essere riempito. Lo senti, non è vero?… Quello che fa male, ti benedice. L’oscurità è la tua candela… Non allontanarti… È lì che entra la luce dentro di te…Continua a rompere il tuo cuore, fin quando non si aprirà”.

Un’immagine balza in primo piano sul palcoscenico del tuo caos mentale: “La candela nel tuo cuore, pronta per essere accesa”. «La candela - ripeti dentro di te - come ho fatto a non pensarci prima?»

Stavolta ti alzi e vai in cucina per accendere un cero rosso che ti hanno regalato a Natale e che dovrebbe durare tre giorni.

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«Ho il telefono intasato di messaggi preconfezionati che invocano salute, amore e serenità per il nuovo anno. Che fare? Se non reagisco passo per scortese, se rispondo mi sento un idiota» afferma perentorio Roberto mentre alimenta il camino con un ciocco di legna.

«Cosa ti irrita?» chiedo.

Roberto si siede esclamando: «Basta con la falsità! Se qualcuno ti sta a cuore, chiamalo o vai a trovarlo! E se non puoi fare né l’una né l’altra cosa, prega o dedicagli un pensiero affettuoso, sarà più vero di un “beep” sul telefonino che annuncia un originalissimo “Buon anno”. E poi c’è dell’altro: gli auguri sono fragili perché, in realtà, non puoi sapere cosa succederà».

«Male non fanno, evocano comunque positività» affermo.

«Sì, ma a cosa servono? L’intero pianeta va a rotoli».

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Non è vero che va tutto male, non è vero che sarà ancora peggio, ma è vero quello che sentiamo dentro. È insicurezza? Paura? Se è così rendiamoci conto che non sono emozioni nostre, ma il riflesso di ciò che respiriamo ovunque volgiamo occhi e orecchie.

Ognuno di noi è nato per la gioia e per l’amore, e se queste parole stridono con la nostra condizione attuale, non è perché non siano vere, ma perché è successo qualcosa che ci ha scollegato da noi stessi, facendoci smarrire l’obiettivo del nostro abitare in questo corpo;

è come se fossimo partiti per raggiungere un luogo e, sulla strada, deviazioni e guasti al motore ci avessero portati così lontano da farci dimenticare la nostra  destinazione.

Cosa fare?

Il percorso è personale, ma un fattore che ci accomuna c’è ed è Chi Siamo dietro le quinte della nostra missione. “Nei certificati di nascita - scrive Cechov - è scritto dove e quando un uomo viene al mondo, ma non vi è specificato il motivo e lo scopo”, forse perché quello dobbiamo trovarlo da soli.

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Non è vero che va tutto male, non è vero che sarà ancora peggio, ma è vero quello che sentiamo dentro. È insicurezza? Paura? Se è così rendiamoci conto che non sono emozioni nostre, ma il riflesso di ciò che respiriamo ovunque volgiamo occhi e orecchie.

Ognuno di noi è nato per la gioia e per l’amore, e se queste parole stridono con la nostra condizione attuale, non è perché non siano vere, ma perché è successo qualcosa che ci ha scollegato da noi stessi, facendoci smarrire l’obiettivo del nostro abitare in questo corpo;

è come se fossimo partiti per raggiungere un luogo e, sulla strada, deviazioni e guasti al motore ci avessero portati così lontano da farci dimenticare la nostra  destinazione.

Cosa fare?

Il percorso è personale, ma un fattore che ci accomuna c’è ed è Chi Siamo dietro le quinte della nostra missione. “Nei certificati di nascita - scrive Cechov - è scritto dove e quando un uomo viene al mondo, ma non vi è specificato il motivo e lo scopo”, forse perché quello dobbiamo trovarlo da soli.

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«Penso sia l’agitazione a tormentarlo. Marco si alza il mattino che è già pronto a scattare. È come se la vita non gli desse mai tregua, e lui non trovasse pace nemmeno nel sonno, e nei sogni - dice Chiara - Io sono sempre sul chi va là, perché qualsiasi cosa dica, viene interpretata come un pretesto per inveirmi contro».

«Da quanto tempo siete sposati?» chiedo.

«Venticinque anni».

«Quante gastriti hai collezionato?»

«Tante! Sono stata malissimo finché mi sono illusa di poter cambiare lui, ed è stato persino peggio quando ho cercato di cambiare me». Il mio sguardo è interrogativo. Chiara riprende: «Il punto è che non abbiamo alcun diritto di interferire nella crescita altrui - mi fissa dritto negli occhi - Quanta presunzione c’era in me nel volere che Marco fosse diverso? Chi sono io per sapere cosa sia in assoluto meglio per lui?»

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Siamo a Berceto, un piccolo borgo immerso nell’Appennino parmense, è il 24 dicembre del 2019 quando il primo cittadino, Luigi Lucchi, emana questa straordinaria «Ordinanza N. 83 per il Santo Natale:

Richiamato l’articolo 3 dello Statuto Comunale che riporta tra le finalità del Comune anche quella di (…) favorire il pieno sviluppo della persona umana ed il soddisfacimento dei bisogni collettivi;

considerato che spesso nei rapporti sociali si creano tensioni e litigi inutili dettati da individualismo ed egoismo e che tutto ciò danneggia la piccola comunità del Comune di Berceto;

vista la volontà del Sindaco di riempire di gioia il cuore di tutti i suoi concittadini in occasione del Santo Natale;

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Di questa indimenticabile vicenda, mi ha colpito la fantasia dei coniugi salodiani Angelo e Lucia, e non solo quella; Angelo Aime e Lucia Lanzi, con i loro sguardi brillanti, sprigionano oggi come allora, un’energia contagiosa.

Siamo all’inizio degli anni ’80 e mentre Angelo si guadagna da vivere come scultore e prestigiatore, Lucia è un’appassionata insegnante. Sono entrambi capi scout e, fra i loro sogni, c’è quello di far vivere ai ragazzi un campo estivo all’estero.

In quei giorni Angelo, costretto a letto bendato per un problema alla retina, può solo ascoltare la radio, ed è lì che gli balena l’idea di chiedere a Sandro Pertini l’omaggio di una pipa da vendere per finanziare il viaggio.

I lupetti vengono incaricati di scrivere la lettera al Presidente della Repubblica e, dopo sei settimane, il gruppo scout si ritrova fra le mani la risposta di Pertini con annessa pipa e benestare alla vendita.

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«Ormai non mi vede più nessuno» dice Melina con lo sguardo basso. «In che senso?» le domando. Solleva il viso impreziosito dalle rughe che, testimoni silenti di 83 autunni portati sulle spalle e nel cuore, sembrano rivoli che solcano la pianura riarsa di un volto spento.

Punta gli occhi color tabacco nei miei e con tono monocorde afferma: «Una volta, quando incrociavo uno sguardo, le persone mi guardavano e io… mi sentivo viva. Poi gli ‘enta’ sono diventati ‘anta’ e, un giorno, è successo». 

«Successo cosa?».

Melina riprende. «Ero in uno di quei nuovi centri commerciali, camminavo in mezzo alla gente e osservavo le vetrine. Avevo 75 anni ma, dentro, mi sentivo quella di sempre. Eppure, ci credi? Nessuno si è accorto di me. Non che mi aspettassi di essere rincorsa da un baldo ottantenne con un fiore in bocca, ma almeno essere guardata negli occhi, quello sì».

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La storia di Tom Junod mi ha particolarmente appassionato. Tom è un giornalista della rivista statunitense Esquire, un uomo che non perde occasione per demolire coloro che intervista.

Con sua grande sorpresa viene incaricato dalla Direzione di scrivere un articolo su Fred Rogers, un’adorata stella della televisione americana che da 30 anni conduce un famoso programma ricco di buoni sentimenti.

Tom è stupito non solo per l’incarico, che non ha nulla a che vedere con il suo ruolo («Mi hai assunto come giornalista investigativo, non faccio sviolinate!»), ma anche perché Mr. Rogers ha accettato la proposta dell’intervista a patto che venisse mandato Tom.

Il giornalista raggiunge il celebre personaggio (magistralmente interpretato da Tom Hanks nel film “Un amico straordinario”) sul set e subito assiste ad una scena fuori programma; il conduttore, invece di registrare la trasmissione, si sta intrattenendo da più di un’ora con un bimbo malato venuto a trovarlo.

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Il business plan si chiamava “Scommetti su di me” e l’aveva creato Marco, un ragazzino di 13 anni, per proporre ai suoi compaesani un piano che dimostrasse, numeri alla mano, quanto avrebbe reso loro investire sulla sua formazione.

Il tredicenne di umili origini non voleva, infatti, fermarsi alla scuola dell’obbligo (che nel 1962 prevedeva la terza media), ma proseguire gli studi fino all’università trasferendosi a 80 km di distanza in un rinomato collegio.

Dopo tutto che Marco fosse bravissimo a scuola lo sapevano anche i muri grazie a sua madre che, dalla bottega del paese, tra salami nostrani e bottiglie di latte, pontificava a raffica i successi scolastici del figlio.

 «Come sai che farai i soldi?» chiese a Marco il fruttivendolo al quale il ragazzino aveva appena illustrato il piano. «A scuola sono il migliore, ho letto quasi tutti i libri della biblioteca e parlo bene l’inglese e il latino» rispose sicuro Marco.

«Non perdere tempo - commentò la moglie del negoziante mettendo in mano al consorte una cassetta di mele - che a parlantina, quello, non lo batte nessuno».

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LA FORZA DELLA RESA

BIANCA BROTTO

Un romanzo leggero e profondo che, attraverso l'intreccio delle storie, conduce il lettore... dentro di sé

QUARTA DI COPERTINA
Quella di Milva e di Veronica è la storia di chi corre senza più sapere verso dove e perché, in un alternarsi compulsivo di giornate frenetiche, natali vacui e giornate da riempire a tutti i costi per fuggire il latente senso di insoddisfazione interiore, difficile da identificare, difficile da placare.

E così, mentre Milva si dedica allo shopping, alla famiglia, ai ricevimenti e alla casa impeccabile, Veronica si concentra sulla carriera, sulle letture, sui corsi e sui guru, in un ricerca che porta entrambe a soddisfare una moltitudine di desideri materiali e spirituali, ma non a raggiungere la serenità.

Seguendo le turbolente vicende delle protagoniste che si svolgono dall’anno 2000 ai giorni nostri fra Brescia, Milano e Lago di Garda, anche chi non è solito porsi domande esistenziali, si ritrova coinvolto, fra ilarità e commozione, a interrogarsi sul senso della vita e sulla sorgente della pace.

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L’uomo suonava il pianoforte per ore ogni giorno. Apriva uno spartito e leggeva le note a prima vista come si legge un libro. Lui e il suo Bösendorfer erano inseparabili. Persino quando giovanissimo era partito per l’Eritrea, allora colonia italiana, il suo fedele strumento l’aveva accompagnato.

Quando acquistava una casa, il primo ad entrare era il pianoforte sul quale le dita dell’uomo sarebbero corse veloci mentre lui, immerso in virtuosi improvvisi come in lenti adagi, si sarebbe inebriato di un dolcissimo nettare.

Un mattino, mentre si deliziava con un notturno di Chopin, all’improvviso si bloccò. Scosse le dita energicamente e ricominciò. Nuovamente si interruppe. Fece una smorfia di insofferenza e sbatté ancora le mani come si scuote un cencio. L’uomo non capiva perché le sue dita si comportassero da scolarette disubbidienti ma, come poi venne a sapere, quelle erano le prime avvisaglie del Parkinson.

Piangendo sangue, decise di non suonare più.

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Mia madre amava andare in Toscana per alloggiare in una casa immersa nel silenzio di una pineta; mentre era là non aveva l’abitudine di telefonare a nessuno e, quando la si cercava, era spesso sbrigativa perché impegnata in faccende pratiche o in letture spirituali.

Un giorno la chiamai e, alla mia domanda se non si sentisse sola, rispose: «Sola? Non lo sono mai. Ho il mio Signore sempre con me». La risposta mi lasciò perplessa e mi ci vollero anni per afferrarne il significato profondo. 

Successe quando incontrai persone che, a differenza sua, soffrivano la solitudine. Nelle loro abitazioni avvertivo una morsa dolorosa che mi svuotava; era una sorta di tacere assoluto che rendeva l’aria opprimente nonostante lo stereo o il televisore fossero accesi.

Erano, queste case, voragini energetiche che amplificavano un’assenza. Le percepivo come covi di bisogni e, i loro abitanti, come prede di una sete ‘indissetabile’ che li costringeva a cercare di continuo distrazioni, per sedare l’intimo e riarso baratro interiore che li consumava. 

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È sera. Madre e figlia sono in cucina. La giovane è seduta al tavolo mentre la donna cucina cantando. «Puoi smetterla di canticchiare quella canzone? Cosa c’è che non va in te?» impreca Cheryl, la ragazza.

«Non lo so. Cosa ti disturba? - risponde Anne - Io sono felice e chi è felice canta».

«Perché sei felice? Non abbiamo niente, mamma, niente!».

«Beh, siamo ricche d’amore» afferma sorridente la donna.

«Oh, per favore, non ricominciare con questa storia! Facciamo entrambe le cameriere a tempo pieno» urla Cheryl.

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Fu una mail proveniente da San Martino di Castrozza a cambiare radicalmente l’esistenza di Franco perché lui, quel giorno, si accorse che esistevano gli altri.

Erano anni che l’imprenditore trascorreva le vacanze in quel comprensorio affittando, in estate e in inverno, una villa spettacolare con il bosco alle spalle e la facciata di vetro alta 6 metri che si affacciava sulla barriera corallina delle Dolomiti, testimoni silenti d’immobile magnificenza.

Nella quiete assoluta di quell’oasi, Franco, titolare di una grande azienda, recuperava le energie immergendosi in agosto nella piscina laghetto e godendosi, in dicembre, l’atmosfera soffusa del caminetto al tramonto, quando le Pale si tingevano di rosa e sembravano sentinelle granitiche di rocciose certezze, e insondabili abissi.

Aprì la posta elettronica in quella che sembrava una qualsiasi mattina di giugno e, nel vedere la mail del padrone della villa, gli sembrò di respirare aria di montagna. Rilassato lesse:

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A 30 anni Aldo non sa ancora cosa fare della propria vita, e nemmeno lo vuole sapere. Ha frequentato la facoltà di giurisprudenza preparandosi con scrupolo ad ogni esame, ma non riuscendo mai a sostenerne uno giacché, il giorno della prova, veniva sopraffatto dal panico e non si presentava.

Passato quel momento, iniziava a studiare un’altra materia e così via, per sei anni. Un avvocato, amico di famiglia, lo invitò a fare pratica nel suo studio. Aldo accettò e, grazie alla sua preparazione, si ritrovò via via ad occuparsi di cause sempre più importanti. Fino al giorno del colloquio.

Quella mattina l’avvocato lo convocò nel suo studio: «Aldo, è un anno e mezzo che fai praticantato qui ma, adesso, sei un avvocato a tutti gli effetti. E di quelli in gamba. Sarei felice di averti con me a tempo indeterminato». Il volto di Aldo si illuminò in un sorriso. L’uomo continuò: «Però devi laurearti. Con la preparazione che hai, puoi sostenere gli esami a tempo record e, se vuoi, nel frattempo, puoi continuare a collaborare con noi».

Aldo ringraziò per la proposta e disse che ci avrebbe pensato. Da quel giorno non si presentò più allo studio ed evitò di rispondere alle telefonate dell’avvocato.

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Ci sono persone che sono in questo mondo, ma non sono di questo mondo. Quando le si incontra ce ne si accorge indugiando per qualche secondo nel loro sguardo. Quel che si percepisce è una melodia gentile, discreta, compassionevole, silenziosa, che manifesta le molteplici sfumature dell’Amore.

Tu, Umberto, eri e sei Amore. Scrivo di te al presente perché chi ama ha vinto la morte e i 36 anni del passaggio terreno di un Angelo, sono un magnifica testimonianza per noi che siamo ancora qui a giocarci la partita.

Mi chiedo come ti sia trovato tu, Essere di Luce, sul nostro Pianeta.

Ti osservo: non sprechi parole, fai il tuo dovere con il sorriso e conosci solo il linguaggio del cuore, quello che arriva immediato a tutti gli altri cuori. Non solo. Ricevi favori senza mai importi e, irradiando il tuo splendore, conquisti il prossimo con il silenzio e la pace che la tua presenza emana.

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Posted by on in RAGGIUNGERE IL SOGNO

Ha 18 anni il ragazzo che, in un parcheggio, mi chiede un passaggio. Percorriamo un tratto di strada insieme. Riccardo frequenta la quinta liceo.

Gli chiedo quale sia il suo sogno. «Non ne ho idea - risponde - se trovassi una bacchetta magica, le chiederei di mostrarmi cosa voglio».

«Ci sarà pure qualcosa che ti appassiona, o che ti viene facile senza sforzarti granché» incalzo io. Niente. Tabula rasa. Il tempo insieme è terminato.

Lui scende e il mio pensiero corre a Silvia Scarpellini, una donna incontrata di recente, che si dedica al risveglio dei sogni addormentati.

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