Bianca Brotto

Diffondiamo Bellezza

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biancabrotto

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Amo la vita, sempre, anche quando non la capisco, anche quando soffro, ancor di più quando esplodo di gioia; trovo sia un’avventura straordinaria che si rinnova ogni giorno, al sorgere del sole.


Suono di rado, ma con amore, il pianoforte e canto mentre guido. Non ho tempo per le frequentazioni sterili, ma non guardo l’orologio quando un amico ha bisogno di me; l’amicizia è un dono meraviglioso e mi ha salvato la vita.

Mi piace leggere, lasciarmi rapire dai notturni di Chopin e riempirmi con un bel film.


Adoro il fuoco, la fiamma viva, il calore che mi trasmette. Amo viaggiare e vivere le emozioni della natura, dell’arte e degli incontri inattesi. Quando posso fuggo all’isola d’Elba dove, nell’incedere lento e potente del mare, mi rigenero.



Non mi annoio mai, trovo che il semplice esistere nel presente sia entusiasmante.

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«Penso sia l’agitazione a tormentarlo. Marco si alza il mattino che è già pronto a scattare. È come se la vita non gli desse mai tregua, e lui non trovasse pace nemmeno nel sonno, e nei sogni - dice Chiara - Io sono sempre sul chi va là, perché qualsiasi cosa dica, viene interpretata come un pretesto per inveirmi contro».

«Da quanto tempo siete sposati?» chiedo.

«Venticinque anni».

«Quante gastriti hai collezionato?»

«Tante! Sono stata malissimo finché mi sono illusa di poter cambiare lui, ed è stato persino peggio quando ho cercato di cambiare me». Il mio sguardo è interrogativo. Chiara riprende: «Il punto è che non abbiamo alcun diritto di interferire nella crescita altrui - mi fissa dritto negli occhi - Quanta presunzione c’era in me nel volere che Marco fosse diverso? Chi sono io per sapere cosa sia in assoluto meglio per lui?»

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Siamo a Berceto, un piccolo borgo immerso nell’Appennino parmense, è il 24 dicembre del 2019 quando il primo cittadino, Luigi Lucchi, emana questa straordinaria «Ordinanza N. 83 per il Santo Natale:

Richiamato l’articolo 3 dello Statuto Comunale che riporta tra le finalità del Comune anche quella di (…) favorire il pieno sviluppo della persona umana ed il soddisfacimento dei bisogni collettivi;

considerato che spesso nei rapporti sociali si creano tensioni e litigi inutili dettati da individualismo ed egoismo e che tutto ciò danneggia la piccola comunità del Comune di Berceto;

vista la volontà del Sindaco di riempire di gioia il cuore di tutti i suoi concittadini in occasione del Santo Natale;

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Di questa indimenticabile vicenda, mi ha colpito la fantasia dei coniugi salodiani Angelo e Lucia, e non solo quella; Angelo Aime e Lucia Lanzi, con i loro sguardi brillanti, sprigionano oggi come allora, un’energia contagiosa.

Siamo all’inizio degli anni ’80 e mentre Angelo si guadagna da vivere come scultore e prestigiatore, Lucia è un’appassionata insegnante. Sono entrambi capi scout e, fra i loro sogni, c’è quello di far vivere ai ragazzi un campo estivo all’estero.

In quei giorni Angelo, costretto a letto bendato per un problema alla retina, può solo ascoltare la radio, ed è lì che gli balena l’idea di chiedere a Sandro Pertini l’omaggio di una pipa da vendere per finanziare il viaggio.

I lupetti vengono incaricati di scrivere la lettera al Presidente della Repubblica e, dopo sei settimane, il gruppo scout si ritrova fra le mani la risposta di Pertini con annessa pipa e benestare alla vendita.

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«Ormai non mi vede più nessuno» dice Melina con lo sguardo basso. «In che senso?» le domando. Solleva il viso impreziosito dalle rughe che, testimoni silenti di 83 autunni portati sulle spalle e nel cuore, sembrano rivoli che solcano la pianura riarsa di un volto spento.

Punta gli occhi color tabacco nei miei e con tono monocorde afferma: «Una volta, quando incrociavo uno sguardo, le persone mi guardavano e io… mi sentivo viva. Poi gli ‘enta’ sono diventati ‘anta’ e, un giorno, è successo». 

«Successo cosa?».

Melina riprende. «Ero in uno di quei nuovi centri commerciali, camminavo in mezzo alla gente e osservavo le vetrine. Avevo 75 anni ma, dentro, mi sentivo quella di sempre. Eppure, ci credi? Nessuno si è accorto di me. Non che mi aspettassi di essere rincorsa da un baldo ottantenne con un fiore in bocca, ma almeno essere guardata negli occhi, quello sì».

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La storia di Tom Junod mi ha particolarmente appassionato. Tom è un giornalista della rivista statunitense Esquire, un uomo che non perde occasione per demolire coloro che intervista.

Con sua grande sorpresa viene incaricato dalla Direzione di scrivere un articolo su Fred Rogers, un’adorata stella della televisione americana che da 30 anni conduce un famoso programma ricco di buoni sentimenti.

Tom è stupito non solo per l’incarico, che non ha nulla a che vedere con il suo ruolo («Mi hai assunto come giornalista investigativo, non faccio sviolinate!»), ma anche perché Mr. Rogers ha accettato la proposta dell’intervista a patto che venisse mandato Tom.

Il giornalista raggiunge il celebre personaggio (magistralmente interpretato da Tom Hanks nel film “Un amico straordinario”) sul set e subito assiste ad una scena fuori programma; il conduttore, invece di registrare la trasmissione, si sta intrattenendo da più di un’ora con un bimbo malato venuto a trovarlo.

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Il business plan si chiamava “Scommetti su di me” e l’aveva creato Marco, un ragazzino di 13 anni, per proporre ai suoi compaesani un piano che dimostrasse, numeri alla mano, quanto avrebbe reso loro investire sulla sua formazione.

Il tredicenne di umili origini non voleva, infatti, fermarsi alla scuola dell’obbligo (che nel 1962 prevedeva la terza media), ma proseguire gli studi fino all’università trasferendosi a 80 km di distanza in un rinomato collegio.

Dopo tutto che Marco fosse bravissimo a scuola lo sapevano anche i muri grazie a sua madre che, dalla bottega del paese, tra salami nostrani e bottiglie di latte, pontificava a raffica i successi scolastici del figlio.

 «Come sai che farai i soldi?» chiese a Marco il fruttivendolo al quale il ragazzino aveva appena illustrato il piano. «A scuola sono il migliore, ho letto quasi tutti i libri della biblioteca e parlo bene l’inglese e il latino» rispose sicuro Marco.

«Non perdere tempo - commentò la moglie del negoziante mettendo in mano al consorte una cassetta di mele - che a parlantina, quello, non lo batte nessuno».

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LA FORZA DELLA RESA

BIANCA BROTTO

Un romanzo leggero e profondo che, attraverso l'intreccio delle storie, conduce il lettore... dentro di sé

QUARTA DI COPERTINA
Quella di Milva e di Veronica è la storia di chi corre senza più sapere verso dove e perché, in un alternarsi compulsivo di giornate frenetiche, natali vacui e giornate da riempire a tutti i costi per fuggire il latente senso di insoddisfazione interiore, difficile da identificare, difficile da placare.

E così, mentre Milva si dedica allo shopping, alla famiglia, ai ricevimenti e alla casa impeccabile, Veronica si concentra sulla carriera, sulle letture, sui corsi e sui guru, in un ricerca che porta entrambe a soddisfare una moltitudine di desideri materiali e spirituali, ma non a raggiungere la serenità.

Seguendo le turbolente vicende delle protagoniste che si svolgono dall’anno 2000 ai giorni nostri fra Brescia, Milano e Lago di Garda, anche chi non è solito porsi domande esistenziali, si ritrova coinvolto, fra ilarità e commozione, a interrogarsi sul senso della vita e sulla sorgente della pace.

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L’uomo suonava il pianoforte per ore ogni giorno. Apriva uno spartito e leggeva le note a prima vista come si legge un libro. Lui e il suo Bösendorfer erano inseparabili. Persino quando giovanissimo era partito per l’Eritrea, allora colonia italiana, il suo fedele strumento l’aveva accompagnato.

Quando acquistava una casa, il primo ad entrare era il pianoforte sul quale le dita dell’uomo sarebbero corse veloci mentre lui, immerso in virtuosi improvvisi come in lenti adagi, si sarebbe inebriato di un dolcissimo nettare.

Un mattino, mentre si deliziava con un notturno di Chopin, all’improvviso si bloccò. Scosse le dita energicamente e ricominciò. Nuovamente si interruppe. Fece una smorfia di insofferenza e sbatté ancora le mani come si scuote un cencio. L’uomo non capiva perché le sue dita si comportassero da scolarette disubbidienti ma, come poi venne a sapere, quelle erano le prime avvisaglie del Parkinson.

Piangendo sangue, decise di non suonare più.

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Mia madre amava andare in Toscana per alloggiare in una casa immersa nel silenzio di una pineta; mentre era là non aveva l’abitudine di telefonare a nessuno e, quando la si cercava, era spesso sbrigativa perché impegnata in faccende pratiche o in letture spirituali.

Un giorno la chiamai e, alla mia domanda se non si sentisse sola, rispose: «Sola? Non lo sono mai. Ho il mio Signore sempre con me». La risposta mi lasciò perplessa e mi ci vollero anni per afferrarne il significato profondo. 

Successe quando incontrai persone che, a differenza sua, soffrivano la solitudine. Nelle loro abitazioni avvertivo una morsa dolorosa che mi svuotava; era una sorta di tacere assoluto che rendeva l’aria opprimente nonostante lo stereo o il televisore fossero accesi.

Erano, queste case, voragini energetiche che amplificavano un’assenza. Le percepivo come covi di bisogni e, i loro abitanti, come prede di una sete ‘indissetabile’ che li costringeva a cercare di continuo distrazioni, per sedare l’intimo e riarso baratro interiore che li consumava. 

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È sera. Madre e figlia sono in cucina. La giovane è seduta al tavolo mentre la donna cucina cantando. «Puoi smetterla di canticchiare quella canzone? Cosa c’è che non va in te?» impreca Cheryl, la ragazza.

«Non lo so. Cosa ti disturba? - risponde Anne - Io sono felice e chi è felice canta».

«Perché sei felice? Non abbiamo niente, mamma, niente!».

«Beh, siamo ricche d’amore» afferma sorridente la donna.

«Oh, per favore, non ricominciare con questa storia! Facciamo entrambe le cameriere a tempo pieno» urla Cheryl.

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Fu una mail proveniente da San Martino di Castrozza a cambiare radicalmente l’esistenza di Franco perché lui, quel giorno, si accorse che esistevano gli altri.

Erano anni che l’imprenditore trascorreva le vacanze in quel comprensorio affittando, in estate e in inverno, una villa spettacolare con il bosco alle spalle e la facciata di vetro alta 6 metri che si affacciava sulla barriera corallina delle Dolomiti, testimoni silenti d’immobile magnificenza.

Nella quiete assoluta di quell’oasi, Franco, titolare di una grande azienda, recuperava le energie immergendosi in agosto nella piscina laghetto e godendosi, in dicembre, l’atmosfera soffusa del caminetto al tramonto, quando le Pale si tingevano di rosa e sembravano sentinelle granitiche di rocciose certezze, e insondabili abissi.

Aprì la posta elettronica in quella che sembrava una qualsiasi mattina di giugno e, nel vedere la mail del padrone della villa, gli sembrò di respirare aria di montagna. Rilassato lesse:

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A 30 anni Aldo non sa ancora cosa fare della propria vita, e nemmeno lo vuole sapere. Ha frequentato la facoltà di giurisprudenza preparandosi con scrupolo ad ogni esame, ma non riuscendo mai a sostenerne uno giacché, il giorno della prova, veniva sopraffatto dal panico e non si presentava.

Passato quel momento, iniziava a studiare un’altra materia e così via, per sei anni. Un avvocato, amico di famiglia, lo invitò a fare pratica nel suo studio. Aldo accettò e, grazie alla sua preparazione, si ritrovò via via ad occuparsi di cause sempre più importanti. Fino al giorno del colloquio.

Quella mattina l’avvocato lo convocò nel suo studio: «Aldo, è un anno e mezzo che fai praticantato qui ma, adesso, sei un avvocato a tutti gli effetti. E di quelli in gamba. Sarei felice di averti con me a tempo indeterminato». Il volto di Aldo si illuminò in un sorriso. L’uomo continuò: «Però devi laurearti. Con la preparazione che hai, puoi sostenere gli esami a tempo record e, se vuoi, nel frattempo, puoi continuare a collaborare con noi».

Aldo ringraziò per la proposta e disse che ci avrebbe pensato. Da quel giorno non si presentò più allo studio ed evitò di rispondere alle telefonate dell’avvocato.

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Ci sono persone che sono in questo mondo, ma non sono di questo mondo. Quando le si incontra ce ne si accorge indugiando per qualche secondo nel loro sguardo. Quel che si percepisce è una melodia gentile, discreta, compassionevole, silenziosa, che manifesta le molteplici sfumature dell’Amore.

Tu, Umberto, eri e sei Amore. Scrivo di te al presente perché chi ama ha vinto la morte e i 36 anni del passaggio terreno di un Angelo, sono un magnifica testimonianza per noi che siamo ancora qui a giocarci la partita.

Mi chiedo come ti sia trovato tu, Essere di Luce, sul nostro Pianeta.

Ti osservo: non sprechi parole, fai il tuo dovere con il sorriso e conosci solo il linguaggio del cuore, quello che arriva immediato a tutti gli altri cuori. Non solo. Ricevi favori senza mai importi e, irradiando il tuo splendore, conquisti il prossimo con il silenzio e la pace che la tua presenza emana.

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Posted by on in RAGGIUNGERE IL SOGNO

Ha 18 anni il ragazzo che, in un parcheggio, mi chiede un passaggio. Percorriamo un tratto di strada insieme. Riccardo frequenta la quinta liceo.

Gli chiedo quale sia il suo sogno. «Non ne ho idea - risponde - se trovassi una bacchetta magica, le chiederei di mostrarmi cosa voglio».

«Ci sarà pure qualcosa che ti appassiona, o che ti viene facile senza sforzarti granché» incalzo io. Niente. Tabula rasa. Il tempo insieme è terminato.

Lui scende e il mio pensiero corre a Silvia Scarpellini, una donna incontrata di recente, che si dedica al risveglio dei sogni addormentati.

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Quel giorno, passando davanti al Duomo di Firenze, a Giacomo venne voglia di visitarlo, ma non certo pagando. Scoprì che era possibile entrate gratis solo nella zona riservata alle confessioni.

Il giovane non era mai andato a messa e, in quel periodo, ce l’aveva con tutti, in primis con sua moglie che era morta da due mesi lasciandolo solo con un bambino di 9 anni, poi con il mondo che sembrava non far caso ai drammi umani, infine con Dio che permetteva simili atrocità.

Non ci pensò due volte: «Almeno un angolo della Cattedrale me lo vedo» si disse varcando il portone di Santa Maria del Fiore, un tempo la chiesa più grande del mondo, e dirigendosi nella zona dei confessionali.

Subito la rabbia gli montò dentro nel vedere una donna in lacrime uscire da una bussola di legno; il desiderio di dirne 4 a quel sacerdote si fece pressante e, svelto, si accomodò di fronte alla grata.

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Era la sera dell’11 settembre. E Benedetta stava imprecando. In quel momento di scoramento totale ce l’aveva con tutto, persino con il suo nome che sembrava una beffa:

“Come si fa a dare un nome del genere a una che alle benedizioni nemmeno ci crede? - pensava -  I miei ci hanno provato a farmi diventare una cattolica credente, ma quel che mi è rimasto è solo il ricordo di Gesù e di sua madre come personaggi storici realmente esistiti».

Benedetta, quel giorno, era crollata e non si dava pace per le ingiustizie che la vita sfornava per lei con implacabile fantasia e che, quell’11 settembre, avevano preso la forma di una tragedia familiare. Donna concreta e razionale, non credeva né ai santi, né ai miracoli, ma solo nelle azioni che ognuno può compiere per migliorare la propria condizione.

Seduta sul letto davanti alla televisione, si era abbandonata allo sconforto, condizione per lei rara. Nella testa un chiodo fisso: il baratro nel quale suo figlio era precipitato.

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Lei è la dimostrazione di come i sogni possano realizzarsi ad ogni età. Non solo.

Lei ci mostra come il giorno del suo e nostro sprofondare nel baratro del dolore, non sia unicamente la fine di qualcosa, ma anche e soprattutto l’inizio di un nuovo viaggio.

Lei si chiama Mariafelicia e la discesa nell’abisso delle sue fragilità, l’ha guidata alla scoperta di uno scrigno colmo di talenti che giaceva smarrito sul fondale oceanico del suo cuore.

Incontro la sua simpatia partenopea sulle Dolomiti e, fra battute e spontanea comicità, percepisco in lei la lucentezza propria di chi ha trovato qualcosa di grande, un sorta di perla preziosa che non ha niente a che vedere con gli incredibili traguardi raggiunti nelle immersioni in apnea,

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Non possiamo rispettarci a vicenda? A cosa serve la critica fulminea per le scelte altrui? Perché ogni schieramento deve erigere la propria muraglia pur sapendo che la separazione rende deboli?

Quando le nostre frequenze sono alte, siamo luminosi, in pace, non offendiamo, sospendiamo il giudizio, dispensiamo amore. Punto.

Quando, invece, vibriamo nell’ombra delle basse frequenze, nutriamo il nostro e altrui malessere scagliandoci contro chi è nero o giallo, vota a destra o a sinistra, non si vaccina o si vaccina, creando divisioni.

Se non ci accorgiamo di quanto distruttiva sia la frattura che le invettive personali provocano ad ogni livello, facciamo un salto indietro nel tempo e osserviamo cosa succede quando a regnare è l’unione.

È il 6 aprile del 2009, sono le 3 e 32 quando la terra dell’Aquila e di altri 56 comuni trema nella notte con una serie di violentissime scosse che causano 309 vittime, 1600 feriti e 100mila sfollati.

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Mi capita spesso di imbattermi in persone che, seppur molto diverse fra loro, sono accomunate dal medesimo smarrimento del non riuscire a trovare il senso della vita, quel senso che esiste e che attende il nostro permesso per svelarcisi.

Agata è passata dal ruolo di manager nella capitale, al silenzio di una tenuta nella campagna laziale; mi racconta della sua felicità e del privilegio d’essere padrona del proprio tempo, ma i suoi occhi trasudano pena.

E che dire di Sergio, triste perché non riesce a superare la morte del padre, suo unico punto di riferimento? Di Marina che corre per arrivare dappertutto e lamenta la mancanza di spazio per sé?

Di Ciro che trova sollievo bevendo? Di Livia che rincorre la serenità frequentando corsi su corsi? Di Mattia che sta male perché non riesce ad andare in pensione, e di Antonio che ci è riuscito e ora si annoia?

Il disagio latente avvolge chi cerca il proprio star bene all’esterno di sé, come se figli, amici, partner, vacanze, oggetti, professioni, case… avessero mai riempito il vuoto che abita le profondità umane.

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Le ho vissute perché le ho ardentemente desiderate, le notti in foresta. Volevo tuffarmi nella natura, e nel suo immenso amore. Volevo, come cantava Battisti, planare “sopra boschi di braccia tese, respirando brezze che dilagano su terre senza limiti e confini”.

Così, insieme ad altri esploratori del bello, mi sono trovata a calpestare i sentieri delle foreste casentinesi che si snodano fra abeti bianchi, simbolo per i frati camaldolesi di elevazione spirituale, e candidi faggi che, timorosi della luce, crescono fitti per proteggersi dai raggi del sole.

All’ombra di questi giganti, su distese fiorite di salvia dei boschi, abbiamo camminato in religioso silenzio addentrandoci in una cattedrale dalle colonne pregne di centenaria saggezza, respirando ad ogni passo, il riverbero potente di Chi siamo.

Al calar della sera, mentre il sole incendiava le chiome, abbiamo varcato il portale della faggeta dove avremmo dormito accompagnati dalle guide del parco e dagli amici de “La via delle foreste” coordinati da Enrica Bortolazzi, mente creatrice di questo progetto.



Sotto i piedi un profumato tappeto di foglie secche. Sopra la testa un tetto di fronde verdissime. A tratti, sconfinati assaggi di blu.

Nel mezzo solo i faggi che avrebbero custodito i nostri sogni, sorretto le amache e confortato le ataviche paure che il buio avrebbe potuto risvegliare.

Lentamente l’oscurità ha conquistato il cielo e noi, muniti di torce sulla fronte, abbiamo lasciato la radura impregnata delle nostre risate, per raggiungere le amache sparse nel vasto pianoro, richiudendoci al loro interno.

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