Bianca Brotto

Diffondiamo Bellezza

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biancabrotto

biancabrotto

Amo la vita, sempre, anche quando non la capisco, anche quando soffro, ancor di più quando esplodo di gioia; trovo sia un’avventura straordinaria che si rinnova ogni giorno, al sorgere del sole.


Suono di rado, ma con amore, il pianoforte e canto mentre guido. Non ho tempo per le frequentazioni sterili, ma non guardo l’orologio quando un amico ha bisogno di me; l’amicizia è un dono meraviglioso e mi ha salvato la vita.

Mi piace leggere, lasciarmi rapire dai notturni di Chopin e riempirmi con un bel film.


Adoro il fuoco, la fiamma viva, il calore che mi trasmette. Amo viaggiare e vivere le emozioni della natura, dell’arte e degli incontri inattesi. Quando posso fuggo all’isola d’Elba dove, nell’incedere lento e potente del mare, mi rigenero.



Non mi annoio mai, trovo che il semplice esistere nel presente sia entusiasmante.

Non sono state le sue parole, a stupirmi, ma lei, l’intima pace che percepivo mentre asciugavamo i piatti e io non sapevo chi fosse. Con mia figlia si erano conosciute in un villaggio nel quale la ragazza faceva l’animatrice, poi me la sono trovata in casa, di passaggio, ed è stato lì che fissandola negli occhi profondamente verdi, ho sentito che Gaietta, questo il suo nome, emanava la consapevolezza di chi si fida e affida serenamente alla vita, accogliendo la perfezione di ogni evento nella totale accettazione.

Quella sera parlammo a lungo e, tempo dopo, lei mi scrisse: «Ho riflettuto sulla domanda che mi avevi fatto in merito al perché dell’esistenza e, nel mio pensarci, ho perso un amico senza aver avuto il tempo di accorgermene, ho fatto un master di yoga e ho incontrato anime luminose.

Attraverso il mio calpestare le strade di ogni giorno, ho sfiorato le vette dell’Amore innanzi alle quali ho solo potuto rispondere con “lacrime profumate di miele” come scrivi nel tuo libro (“La Forza della Resa”).

La vita è un magico viaggio e non dobbiamo spendere il nostro tempo a pensare troppo, ma a vivere pienamente stando semplicemente vicini a chi soffre e non ha mai sperimentato la magnificenza della luce.

La risposta a tutti i perché, quindi, è in quello che mi succede ogni giorno; Gandhi, quando gli chiesero quale fosse il suo messaggio, disse: “La mia vita è il mio messaggio”. Lo stesso vale per me.

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E pensare che non le avevo notate, le mani di Gigi. Nemmeno i suoi occhi. Ma la voce, di quella mi ero accorta perché mi aveva investita con una cascata di dolcezza e mi ero ritrovata avvolta nel silenzio di parole che mi avevano lasciata senza parole.

«Ero timido da far schifo - dice Gigi - non riuscivo a guardare nessuno negli occhi e più nascondevo il mio difetto, più si vedeva e più mi distruggevano. Mio padre gridava “Sii forte” come a dire che così com’ero non valevo nulla.

Ma chi l’ha detto? Hai notato che se hai un figlio timido è il più sensibile di tutti? Non la vedi che quella è la parte più bella che ha? Invece che distruggergliela, la sua fragilità, insegnagli ad amarla, perché non ci si crogioli dentro, ma la faccia diventare la sua vera forza».

Gigi, la timidezza, l’ha guarita imponendosi per un anno di fissare ogni persona negli occhi. Sudava, ma non scappava dagli sguardi e adesso non ha paura nemmeno di parlare della sua focomelia e di quando, al mare, i bambini gli dessero del monco per le sue dita malformate, e dello zoppo per la sua andatura incerta data dai piedi, anch’essi vittime del talidomide

(un farmaco che negli anni 50 e 60 le donne gravide prendevano per alleviare la nausea e che ha causato in moltissimi nascituri alterazioni congenite nello sviluppo degli arti). 

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«Perché non ho le braccia?» chiede la piccola Simona alla madre.

«Siamo tutti diversi, tesoro mio. Tu hai i capelli lunghi, tua sorella corti, qualcuno è alto, qualcuno basso, tu non hai le braccia, mentre altri le hanno» risponde la donna tranquillizzando in questo modo la figlioletta che, anni dopo, comprendendo la sua condizione, dirà:

«C’era un girasole vicino al cancello di casa che non si è mai stancato di seguire il sole, valicando con il suo capo le inferriate. Quel seme che prima aveva rotto la terra e poi cercato la luce oltre i confini del giardino, pur restando all’interno delle sbarre, mi rappresentava alla perfezione».

Osservo Simona Atzori dipingere con i piedi seduta su di un tavolo. Il suo sorriso è contagioso. La sua bellezza riempie la notte estiva. E riempie me. 

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Arturo e Lisa stanno utilizzando un’applicazione per valutare il loro amore. L’esito del test è sfavorevole e Arturo viene lasciato. Subito. Lo stesso Arturo che, nell’azienda per la quale lavora, ha creato un algoritmo per individuare il personale non più necessario, è il primo a essere licenziato.

L’unico posto che l’over 40 trova è come corriere in bicicletta con paga da fame, impiego che riesce a sopportare grazie all’aiuto che riceve da una App (gratis per un mese) in grado di dar vita all’ologramma della sua partner ideale; l’uomo incontra così Stella, una ragazza in carne e ossa (proiettata virtualmente dal telefonino), che conosce intimamente Arturo grazie alle informazioni da lui stesso messe in rete.

Fra i due scocca l’amore ma, allo scadere del mese, l’App consente il prosieguo dell’idillio solo in cambio del pagamento di un canone oneroso.

Sulla scena di queste vicende raccontate da Pif in un film dell’anno scorso, assistiamo alla deriva della tecnologia che agisce scollegata dal cuore e che ci spinge prima ad affidarci a lei per facilitarci la vita, poi a diventarne dipendenti, infine a metterla addirittura al comando permettendole di decidere al posto nostro.

Possibile? Sì, quando si perde di vista il proprio valore e quando a perderlo è la quasi totalità del genere umano, trasformatasi in un esercito di ubbidienti uomini macchina.

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Brescia. Parco Ducos. Il giovane procede a grandi falcate verso un anziano che, seduto sulla panchina, sta leggendo il Giornale di Brescia e, raggiuntolo, esclama: «Si ricorda di me?» Il vecchio abbassa il quotidiano e cerca nella memoria, senza trovarvi alcunché.

«Professor Rossi - dice il giovane - sono Mino Scafi, ero un suo studente».

«Che piacere rivederti - sorride il Prof - Cosa mi racconti?»

«Sono un insegnante - risponde orgoglioso il giovane - e, in verità, lo sono perché volevo essere per molti ragazzi l’educatore che lei è stato per me».

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“Mi chiamo Rosalia e non mi piace essere compatita. Come avrete visto sono una persona fisicamente non normale a causa di un trauma da parto”. Queste le prime parole con le quali Rosalia si presenta sul suo blog Botanica Commestibile. “Quando sono nata, dopo diversi mesi, si sono accorti che c’era qualcosa che non funzionava. Invece di aumentare di peso, diminuivo".

La piccina aveva infatti numerosi problemi fra i quali una frattura alla gamba, una alla clavicola e una alla mandibola e, nel crescere, le si è manifestata anche una grave scoliosi che ha reso necessario un intervento alla spina dorsale. “In pratica ho trascorso la mia infanzia e adolescenza in ospedale” conclude.

Rosalia percepisce un assegno mensile di 290 euro e, non potendo lavorare a causa dei suoi problemi fisici, oltre a dedicarsi ad un blog sulle ricette lombarde (piattibrescianiraccolta.altervista.org), ha creato anche Botanica Commestibile "perché amo molto la natura e anche per guadagnare qualche soldo”.

In compagnia del suo inseparabile Calimero, un trovatello preso al canile, Rosalia ama passeggiare nei prati e nei boschi di Soprazocco (Bs) fotografando erbe e piante. “Nella natura - scrive - mi sento una persona completa perché la natura non ti giudica, non ha pregiudizi, ti ama per come sei”. 

La piccola grande Rosalia, con le sue 57 estati sulle spalle, nel blog di Botanica Commestibile (botanicacommestibile.altervista.org) ci mostra le piante edibili che incontra nelle sue passeggiate e le relative ricette (come le penne al rafano, le frittelle di elicriso, la panna cotta alla verbena) arricchite da una breve spiegazione sulle proprietà della pianta e, se c’è, da una leggenda.

Dell’elicriso, ad esempio, si racconta che le ragazze, la sera prima di San Giovanni, legassero un nastrino all’erbetta prescelta e “a seconda dell‘insetto che trovavano sulla loro piantina, ricavavano indicazioni sul matrimonio; se c’era la formica significava che avrebbero trovato un marito laborioso, la mosca un marito ozioso, l’ape un apicoltore, il bruco un ortolano, la coccinella un pastore, lo scarabeo un fabbro, il ragno un sarto. Quelle che non trovavano alcun insetto dovevano ripetere il rituale l’anno successivo”.

Siamo immersi in un supermercato naturale che ci viene offerto gratuitamente e ci sono persone speciali che ci insegnano a portare la natura in tavola, e non solo quella. Rosalia ci mostra, con la sua forza, che nonostante la società sembri accogliere solo chi è perfetto, la vita va vissuta giorno per giorno con quello che c’è perché, anche quando quello che c’è non è perfetto agli occhi del mondo, in qualche modo lo è, perfetto.

Ripensando a Ermanno Olmi che si toglieva il cappello ogni volta che passava davanti ad un mandorlo in fiore io, oggi, mi inchino innanzi al sorriso di Rosalia e a tutte le persone che, come lei, ci mostrano come la disabilità sia solo una questione di percezione perché “se puoi fare anche una sola cosa bene - dice Martina Navratilova - sei necessario a qualcuno”.

E Rosalia ci è preziosa oltre che per ridimensionare i nostri crucci quotidiani, per rinfrescarci con un delizioso sorbetto ai gelsi bianchi. Chapeau, Rosalia!

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Dieci parole via mail avevano mandato in frantumi la sua esistenza, venerdì sera, quando Valerio, il titolare, le aveva scritto: “Devo parlarti. Così non si va avanti. Ci vediamo lunedì”. 

Quelle righe erano diventate il suo tormento e, mentre il boss era partito per una breve vacanza con la famiglia, il fine settimana di Laura era stato abitato, oltre che da morsi alla pancia e ansie rosicanti, anche da insonnia e incubi sul licenziamento, in uno scorrere lento di ore intrise di piombo e pensieri catastrofici:

“Perché non mi hai chiamata? Mi licenzi con una mail? E il mutuo? Chi lo trova un lavoro decente a 50 anni? Non avrei dovuto affidare la campagna social a Davide, ma si era venduto bene e l’avevi assunto proprio tu!”

Il sabato, macinato al rallentatore, era stato costellato di spiacevolezze quali una multa, una botta allo stinco, una gomma tagliata e un insulto piovuto a sproposito mentre domenica, nel tentativo di distrarsi facendo una passeggiata, Laura era stata sorpresa da un temporale che le aveva inzuppato cuore e vestiti. 

Lunedì. Valerio entra in ufficio sorridente. Laura, il cuore a 1000, lo segue con lo sguardo da un angolo dell’ufficio. Lo osserva parlare con Davide che si fa serio. Laura ha uno scorpione vivo nello stomaco, sta per arrivare il suo turno. “Devo svenire, subito!” decreta imperiosa la sua mente. Non sviene.

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Non so come definirlo, Fausto. Non mi viene da parlare della sua fama di alpinista. Piuttosto, di un portale aperto sull’umanità. Dopo averlo conosciuto, ho custodito gelosamente in me la magnificenza di quell’incontro speciale.

Non pensavo ne avrei scritto, temevo di violarne l’avvolgente bagliore ma la luce, si sa, non si può confinare, esce da ogni pertugio, carta compresa. Ed eccomi qui a cercare di svelare il tocco di silenzio che mi ha sfiorata, un silenzio che Fausto incarna con l’umiltà propria dei grandi Uomini. 

Ci hanno provato anche gli ‘slegati’ a parlare di lui, inseguendo il suo cuore in azione per poterne carpire l’essenza e restituirla a tutti attraverso una rappresentazione-emozione (che vi consiglio di vedere) dal titolo "Anche i sogni impossibili, il XV Ottomila di Fausto De Stefani”.

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Centro di Milano. La piazzetta assolata è attraversata da una strada a senso unico che sparisce dalla mia vista oltre la curva. Due spedizionieri davanti a me sono fermi sulla carreggiata con i loro furgoni. Passano alcuni minuti. Tutto bloccato.

Qualcuno va a vedere cosa succede e torna riferendo di un’ambulanza ferma in mezzo alla strada. Spengo il motore. L’autista del primo furgone ha il vetro abbassato e inizia a suonare il clacson.

“Che senso ha? - mi chiedo - Evidentemente qualcuno sta male”. Ancora colpi di clacson, poi la mano dell’uomo si fissa premuta sul volante generando una sirena sgraziata che, dimentica dell’altrui malessere, dà voce al proprio mal di vivere.

Infine l’autista passa dal grido meccanico alle corde vocali, ululando parolacce contro il personale dell’autolettiga, in un progressivo aumento di oscenità. 

La tensione aumenta. L’uomo ha stretti tempi da rispettare per le consegne e non molla l’assalto verbale. Un infermiere lo raggiunge dicendo: «Mi spiace per l’attesa, ma pensi se fosse sua madre che sta male».

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Si narra di quel padre ricco che, per mostrare al figlio quanto fosse privilegiato, lo mandò per qualche giorno presso una famiglia di contadini.

Quando il bimbo tornò a casa esclamando quanto fossero fortunate quelle persone, il padre strabuzzò gli occhi e chiese: «In che senso, scusa?»

«Il nostro giardino - rispose il bambino - è illuminato dai faretti elettrici e circondato da un muro, il loro è infinito e rischiarato dalla luna; noi abbiamo la piscina con l'acqua trattata, loro un ruscello con rane, pesciolini e tantissime sorprese; noi andiamo al supermercato per comprare il cibo che cuociamo nel microonde mentre il loro, profumato dal fuoco, è coltivato nell’orto;

noi abbiamo lo stereo, loro ascoltano i grilli, gli uccellini e la pioggia che tamburella sul tetto; noi siamo sempre connessi al cellulare mentre loro sono collegati ai prati, agli animali, al cielo, agli amici, anche ai loro problemi che affrontano tutti insieme davanti al caminetto, con un bicchiere di vino in mano, per poi brindarci su».

L’uomo fremeva non sapendo da dove cominciare a confutare le assurde considerazioni del figlio che, tuttavia, lo lasciavano senza parole. Avrebbe voluto starsene zitto per un po’, l’imprenditore, ma non ora.

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L’incontro fra Elsi la bambina, Brigida la bambola e Franz lo scrittore, nel Parco Steglitzer di Berlino si consumò in un pomeriggio del 1924. La bimba piangeva disperata. “Franz le chiese che cosa le fosse successo - racconta la compagna di Kafka nel libro di Jordi Sierra i Fabra ‘Kafka e la bambola viaggiatrice’ - e venimmo a sapere che aveva perso la sua bambola.

Subito lui si inventò una storia plausibile per spiegare la sparizione. ‘La tua bambola sta solo facendo un viaggio, io lo so, mi ha scritto una lettera’. La bambina era un po’ diffidente: ‘Ce l’hai con te?’ ‘No, l’ho lasciata a casa, ma domani te la porto’. La bambina incuriosita aveva già quasi scordato le sue preoccupazioni e Franz se ne tornò subito a casa per scrivere la lettera”.

Quello che più mi ha colpito di questa vicenda è il desiderio di Kafka di dare conforto alla piccola e la dedizione assoluta che ci mise nel portare a termine la sua missione di ‘postino delle bambole’.

Franz, infatti, tornò a casa e si dedicò con grande impegno a scrivere la prima lettera della bambola nella quale Brigida diceva a Elsi di non piangere perché era solo partita per vedere il mondo, ma che le voleva bene e le avrebbe scritto ogni giorno per raccontarle delle sue avventure e, di seguito, prendeva forma un racconto che trasportava Elsi in una storia fantastica.

Fu questa la prima di una serie di missive nelle quali Franz narrava con umorismo le vicende rocambolesche di Brigida, non mancando mai di far sentire la bambina consolata, divertita, amata.

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Quante volte ci ritroviamo a dare valore al nulla? Decidiamo che una moneta virtuale che si mina o si estrae non da un giacimento minerario ‘in carne e ossa’, ma da un software, vale tot, che presenziare addobbati da alberi di natale in certi ambienti valga un altro tot, che farci vedere a bordo di vetture costose ci attribuisca un super tot.

Adesso osserviamo questi tot e sommiamoli uno all’altro; ci ritroveremo con un pugno di tot in mano (volevo dire mosche, ma il tot ha preso il sopravvento).

“Un niente carico di cose importanti - ci suggerisce la mente - e poi cose belle, perché stare in compagnia di persone educate in ambienti raffinati è piacevole, così come lo è provare la potenza di possenti motori, o avere la tranquillità di qualche decina di Bitcoin che fa capolino sulla schermata del pc”. 

Tutto vero e nulla da demonizzare, se non si perde di vista il senso reale della vita, quello che, ad esempio, subito emergerebbe se venisse a mancare per qualche tempo la corrente elettrica. O la salute. 

Non fraintendiamoci.

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Ore 21. Il ragazzo è alto poco meno di due metri ed è affamato. A bordo di un treno, Pietro sta sfrecciando verso casa con lo stomaco in subbuglio e il portafoglio vuoto.

Sulla carta di credito lui i soldi li ha ma scopre, dopo avere ordinato mezzo bufalo (che ci vuole tutto per sfamare un ragazzo di ventidue anni), che su quel treno si può pagare solo in contanti. D

elusione a mille e, più che scoramento, fame. In compenso i suoi vicini stanno ordinando l’altra metà del bufalo. 

Strategia numero uno. Pietro chiama sua madre: «Ho strafame - esclama - ma non accettano la carta».

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All’improvviso mi svegliai su un altro pianeta che aveva decretato una nuova regola, non difficile, ma che richiedeva una buona dose di concentrazione.

Si trattava di pronunciare le due lettere ‘gl’ come se fossero state una ‘r’ e ‘pa’ come ‘pi’: ‘egli’ sarebbe pertanto diventato sonoramente ‘eri’ e ‘palco’, ‘pilco’.

La motivazione era più che giustificata; un gruppo di autorevoli neuroscienziati aveva scoperto che ogni sostituzione fonetica attivava nel cervello nuovi circuiti neuronali aumentando del 90% i livelli di BDNF, una proteina che avrebbe sviluppato nell’uomo un quoziente intellettivo di nuova generazione. 

Non cogliere questa opportunità sarebbe stato folle e la classe politica sposò solerte la causa promuovendola con ogni mezzo possibile per il bene del mondo intero. 

La reazione della popolazione fu incoraggiante e in breve furono in molti a parlare secondo la nuova regola, un po’ per via della serietà delle argomentazioni scientifiche, un po’ per non incorrere nelle sanzioni via via introdotte affinché la società crescesse in modo uniforme;

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«Mi dispiace, ma io non voglio fare l'imperatore. Non è il mio mestiere. Non voglio governare né conquistare nessuno. (…) Tutti noi, esseri umani, dovremmo aiutarci sempre, dovremmo godere soltanto della felicità del prossimo, non odiarci e disprezzarci l'un l’altro».

Queste le parole d'esordio del discorso pronunciato da Charlie Chaplin nel film “Il grande dittatore” da lui scritto, prodotto, diretto e interpretato. Uscito negli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale, il lungometraggio fu subito censurato in quasi tutta Europa fino al 1945, quando la guerra finì.

«In questo mondo c'è posto per tutti - continua il protagonista con parole attualissime - La natura è ricca, è sufficiente per tutti noi. La vita può essere felice e magnifica. Ma noi lo abbiamo dimenticato. L'avidità ha avvelenato i nostri cuori, ha precipitato il mondo nell’odio. (…) 

Abbiamo i mezzi per spaziare, ma ci siamo chiusi in noi stessi; la macchina dell'abbondanza ci ha dato povertà; la scienza ci ha trasformato in cinici. (…) Pensiamo troppo e sentiamo poco. Più che macchinari, ci serve umanità. Più che abilità, ci serve bontà e gentilezza. Senza queste qualità, la vita è violenza. (…)

A coloro che mi odono, io dico: non disperate! L'avidità che ci comanda è solamente un male passeggero, l’amarezza di uomini che temono le vie del progresso umano». 

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Ogni settimana
ho innaffiato un seme
che è diventato un fiore, infine un libro

LA BELLEZZA NEL QUOTIDIANO 

per racchiudere gli articoli pubblicati sul Giornale di Brescia

per dar voce alla bellezza che, sempre e comunque, impregna l'esistenza

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Paolo la tradiva. Continuamente. Sara viveva sulle montagne russe di un rapporto che le regalava sublimi altezze e profondissimi abissi. Ogni loro incontro conteneva già una promessa di dolore. Lei non riusciva a lasciarlo. A lui non era dato di comportarsi diversamente.

Nonostante entrambi avessero paura di abbandonarsi fiduciosi nelle braccia dell’amore, entrambi chiamavano quell’altalena ‘amore’.

«La settimana scorsa - racconta Sara - ho riflettuto sul tradimento di Giuda. Pensavo impossibile che un’amicizia come quella fra Giuda e Gesù potesse finire in quel modo, ma quando ho compreso che Giuda non ha consegnato Gesù per denaro, mi si è aperto un mondo. Il mio mondo».

Lunghi capelli castani incorniciano un viso arricchito da occhi color del buio, occhi profondi che riflettono il barlume di chi inizia a vedere la luce. 

Prosegue: «Giuda amava moltissimo il Maestro, lo aveva visto guarire tante persone, persino risuscitare i morti e pensava che, messo nella condizione obbligata di doversi difendere, Gesù avrebbe sbaragliato gli avversari con gli effetti speciali di cui era capace.

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«Una mattina di 40 anni fa, mentre mi facevo la barba ed ero davanti allo specchio con le guance insaponate - racconta sul palco di Ted con voce serena Arnaldo Graglia - mi sono chiesto cosa volessi fare da grande. Ero libero, il mio lavoro di manager mi piaceva, avevo denaro, perché dunque quella domanda?» 

Arnaldo in quell’istante percepì che oltre quella sua felicità doveva esserci molto di più e sentì che per sfiorare quel ‘di più’, avrebbe dovuto rinascere.

«In 24 ore - continua - ho abbandonato le vecchie abitudini che servono a sopravvivere, ma non a crescere, quali la mondanità, il tennis e gli amici con i quali la sera uscivo a divertirmi. Non ho mollato il lavoro dal quale mi sarei sganciato più tardi e sono qui, 40 anni dopo, a dirvi cosa ho scoperto».

Arnaldo paragona il suo percorso a un nuovo progetto che, per essere sviluppato, «andava coltivato con intenzione, pazienza, perseveranza, sentimento e attenzione verso gli altri». L’obiettivo finale era connettersi con tutto ciò che lo circondava: persone, animali, natura, cose. 

Da dove cominciare? «Dal non nuocere agli altri - dice - ma a me che non ero un santo e avevo le mie antipatie serviva un addestramento; lo trovai nell’amorevole gentilezza, una pratica che genera un effetto simile a quello della primavera quando, dopo l’apparente morte invernale, al primo raggio di sole spuntano germogli e fiori.

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Mi sono fatta ombra per anni. Senza saperlo. Camminando non ci facevo più nemmeno caso a quella forma scura che continuava a seguirmi, non certo per perseguitarmi, ma perché era, ed è, una mia creazione.

Oggi per la prima volta l’ho esaminata. Non la mia. È sempre così difficile vedere se stessi!

Ho osservato l’ombra del mio cane. Lui camminava davanti a me. A sinistra c’era il sole, in mezzo il lupo e alla sua destra una sagoma nera con coda e orecchie ben più grandi delle sue.

Ho chiesto all’ombra: «Esisti sempre?» Risposta: «No. Quando il sole è perpendicolare sulla tua testa, nel centro del giorno, nel centro di te, io non ci sono». 

È stato in quel momento che ho compreso che quando siamo verticalmente attraversati dalla luce, siamo nella Coscienza e lì, dove la beatitudine zampilla, non può esistere alcuna oscurità.

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“Hai mai notato un albero che sta nudo contro il sole, com'è bello? Tutti i suoi rami sono delineati, e nella sua nudità vi è una poesia, vi è una canzone. Ogni foglia è andata e sta aspettando la primavera. La primavera, quando arriva, riempie di nuovo l'albero con la musica di molte foglie le quali, nella giusta stagione, cadono e vengono soffiate via. E questo è il modo in cui va la vita” (Krishnamurti). 

La melodia gentile di queste parole mi riporta al nostro essere alberi; le radici più grandi sono le gambe, i nostri genitori, ma ce ne sono altre profonde che affondano nel terreno, gli avi,  l’ambiente dal quale abbiamo assorbito e assorbiamo gli elementi affettivi, materiali e culturali che ci condizionano.

Il tronco, il nostro busto, ci sostiene, è la struttura portante all’interno della quale si trovano numerosi canali sanguigni che trasportano la linfa dalle radici alla chioma, la testa.

Le nostre braccia protese nel mondo sono i rami già grossi, mentre le mani e le dita sono i più sottili deputati, oltre che alla presa sulle situazioni, a sganciarci di dosso le edere (persone) soffocanti che, abbarbicate alla nostra corteccia, ci succhiano linfa vitale. 

Le foglie, i fiori e i frutti rendono visibile il nostro stato di salute; quando, infatti, l’albero non dà frutti o perde le foglie, si chiama l’agronomo che, oltre a valutare la presenza di parassiti, l’esposizione della chioma al sole e delle radici all’acqua, fa l’analisi del terreno: se il suolo è povero (aridità personale) e manca di azoto, fosforo, potassio, il dottore prescrive il concime (un farmaco) che può essere fecondo (amicizie, risate, buon cibo…) o sterile (beni superflui, frequentazioni d’etichetta, l’apparire…).

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