Bianca Brotto

Diffondiamo Bellezza

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biancabrotto

biancabrotto

Amo la vita, sempre, anche quando non la capisco, anche quando soffro, ancor di più quando esplodo di gioia; trovo sia un’avventura straordinaria che si rinnova ogni giorno, al sorgere del sole.


Suono di rado, ma con amore, il pianoforte e canto mentre guido. Non ho tempo per le frequentazioni sterili, ma non guardo l’orologio quando un amico ha bisogno di me; l’amicizia è un dono meraviglioso e mi ha salvato la vita.

Mi piace leggere, lasciarmi rapire dai notturni di Chopin e riempirmi con un bel film.


Adoro il fuoco, la fiamma viva, il calore che mi trasmette. Amo viaggiare e vivere le emozioni della natura, dell’arte e degli incontri inattesi. Quando posso fuggo all’isola d’Elba dove, nell’incedere lento e potente del mare, mi rigenero.



Non mi annoio mai, trovo che il semplice esistere nel presente sia entusiasmante.

Posted by on in NUOVI ORIZZONTI

L’uomo suonava il pianoforte per ore ogni giorno. Apriva uno spartito e leggeva le note a prima vista come si legge un libro. Lui e il suo Bösendorfer erano inseparabili. Persino quando giovanissimo era partito per l’Eritrea, allora colonia italiana, il suo fedele strumento l’aveva accompagnato.

Quando acquistava una casa, il primo ad entrare era il pianoforte sul quale le dita dell’uomo sarebbero corse veloci mentre lui, immerso in virtuosi improvvisi come in lenti adagi, si sarebbe inebriato di un dolcissimo nettare.

Un mattino, mentre si deliziava con un notturno di Chopin, all’improvviso si bloccò. Scosse le dita energicamente e ricominciò. Nuovamente si interruppe. Fece una smorfia di insofferenza e sbatté ancora le mani come si scuote un cencio. L’uomo non capiva perché le sue dita si comportassero da scolarette disubbidienti ma, come poi venne a sapere, quelle erano le prime avvisaglie del Parkinson.

Piangendo sangue, decise di non suonare più.

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Mia madre amava andare in Toscana per alloggiare in una casa immersa nel silenzio di una pineta; mentre era là non aveva l’abitudine di telefonare a nessuno e, quando la si cercava, era spesso sbrigativa perché impegnata in faccende pratiche o in letture spirituali.

Un giorno la chiamai e, alla mia domanda se non si sentisse sola, rispose: «Sola? Non lo sono mai. Ho il mio Signore sempre con me». La risposta mi lasciò perplessa e mi ci vollero anni per afferrarne il significato profondo. 

Successe quando incontrai persone che, a differenza sua, soffrivano la solitudine. Nelle loro abitazioni avvertivo una morsa dolorosa che mi svuotava; era una sorta di tacere assoluto che rendeva l’aria opprimente nonostante lo stereo o il televisore fossero accesi.

Erano, queste case, voragini energetiche che amplificavano un’assenza. Le percepivo come covi di bisogni e, i loro abitanti, come prede di una sete ‘indissetabile’ che li costringeva a cercare di continuo distrazioni, per sedare l’intimo e riarso baratro interiore che li consumava. 

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È sera. Madre e figlia sono in cucina. La giovane è seduta al tavolo mentre la donna cucina cantando. «Puoi smetterla di canticchiare quella canzone? Cosa c’è che non va in te?» impreca Cheryl, la ragazza.

«Non lo so. Cosa ti disturba? - risponde Anne - Io sono felice e chi è felice canta».

«Perché sei felice? Non abbiamo niente, mamma, niente!».

«Beh, siamo ricche d’amore» afferma sorridente la donna.

«Oh, per favore, non ricominciare con questa storia! Facciamo entrambe le cameriere a tempo pieno» urla Cheryl.

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Fu una mail proveniente da San Martino di Castrozza a cambiare radicalmente l’esistenza di Franco perché lui, quel giorno, si accorse che esistevano gli altri.

Erano anni che l’imprenditore trascorreva le vacanze in quel comprensorio affittando, in estate e in inverno, una villa spettacolare con il bosco alle spalle e la facciata di vetro alta 6 metri che si affacciava sulla barriera corallina delle Dolomiti, testimoni silenti d’immobile magnificenza.

Nella quiete assoluta di quell’oasi, Franco, titolare di una grande azienda, recuperava le energie immergendosi in agosto nella piscina laghetto e godendosi, in dicembre, l’atmosfera soffusa del caminetto al tramonto, quando le Pale si tingevano di rosa e sembravano sentinelle granitiche di rocciose certezze, e insondabili abissi.

Aprì la posta elettronica in quella che sembrava una qualsiasi mattina di giugno e, nel vedere la mail del padrone della villa, gli sembrò di respirare aria di montagna. Rilassato lesse:

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A 30 anni Aldo non sa ancora cosa fare della propria vita, e nemmeno lo vuole sapere. Ha frequentato la facoltà di giurisprudenza preparandosi con scrupolo ad ogni esame, ma non riuscendo mai a sostenerne uno giacché, il giorno della prova, veniva sopraffatto dal panico e non si presentava.

Passato quel momento, iniziava a studiare un’altra materia e così via, per sei anni. Un avvocato, amico di famiglia, lo invitò a fare pratica nel suo studio. Aldo accettò e, grazie alla sua preparazione, si ritrovò via via ad occuparsi di cause sempre più importanti. Fino al giorno del colloquio.

Quella mattina l’avvocato lo convocò nel suo studio: «Aldo, è un anno e mezzo che fai praticantato qui ma, adesso, sei un avvocato a tutti gli effetti. E di quelli in gamba. Sarei felice di averti con me a tempo indeterminato». Il volto di Aldo si illuminò in un sorriso. L’uomo continuò: «Però devi laurearti. Con la preparazione che hai, puoi sostenere gli esami a tempo record e, se vuoi, nel frattempo, puoi continuare a collaborare con noi».

Aldo ringraziò per la proposta e disse che ci avrebbe pensato. Da quel giorno non si presentò più allo studio ed evitò di rispondere alle telefonate dell’avvocato.

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Ci sono persone che sono in questo mondo, ma non sono di questo mondo. Quando le si incontra ce ne si accorge indugiando per qualche secondo nel loro sguardo. Quel che si percepisce è una melodia gentile, discreta, compassionevole, silenziosa, che manifesta le molteplici sfumature dell’Amore.

Tu, Umberto, eri e sei Amore. Scrivo di te al presente perché chi ama ha vinto la morte e i 36 anni del passaggio terreno di un Angelo, sono un magnifica testimonianza per noi che siamo ancora qui a giocarci la partita.

Mi chiedo come ti sia trovato tu, Essere di Luce, sul nostro Pianeta.

Ti osservo: non sprechi parole, fai il tuo dovere con il sorriso e conosci solo il linguaggio del cuore, quello che arriva immediato a tutti gli altri cuori. Non solo. Ricevi favori senza mai importi e, irradiando il tuo splendore, conquisti il prossimo con il silenzio e la pace che la tua presenza emana.

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Posted by on in RAGGIUNGERE IL SOGNO

Ha 18 anni il ragazzo che, in un parcheggio, mi chiede un passaggio. Percorriamo un tratto di strada insieme. Riccardo frequenta la quinta liceo.

Gli chiedo quale sia il suo sogno. «Non ne ho idea - risponde - se trovassi una bacchetta magica, le chiederei di mostrarmi cosa voglio».

«Ci sarà pure qualcosa che ti appassiona, o che ti viene facile senza sforzarti granché» incalzo io. Niente. Tabula rasa. Il tempo insieme è terminato.

Lui scende e il mio pensiero corre a Silvia Scarpellini, una donna incontrata di recente, che si dedica al risveglio dei sogni addormentati.

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Quel giorno, passando davanti al Duomo di Firenze, a Giacomo venne voglia di visitarlo, ma non certo pagando. Scoprì che era possibile entrate gratis solo nella zona riservata alle confessioni.

Il giovane non era mai andato a messa e, in quel periodo, ce l’aveva con tutti, in primis con sua moglie che era morta da due mesi lasciandolo solo con un bambino di 9 anni, poi con il mondo che sembrava non far caso ai drammi umani, infine con Dio che permetteva simili atrocità.

Non ci pensò due volte: «Almeno un angolo della Cattedrale me lo vedo» si disse varcando il portone di Santa Maria del Fiore, un tempo la chiesa più grande del mondo, e dirigendosi nella zona dei confessionali.

Subito la rabbia gli montò dentro nel vedere una donna in lacrime uscire da una bussola di legno; il desiderio di dirne 4 a quel sacerdote si fece pressante e, svelto, si accomodò di fronte alla grata.

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Era la sera dell’11 settembre. E Benedetta stava imprecando. In quel momento di scoramento totale ce l’aveva con tutto, persino con il suo nome che sembrava una beffa:

“Come si fa a dare un nome del genere a una che alle benedizioni nemmeno ci crede? - pensava -  I miei ci hanno provato a farmi diventare una cattolica credente, ma quel che mi è rimasto è solo il ricordo di Gesù e di sua madre come personaggi storici realmente esistiti».

Benedetta, quel giorno, era crollata e non si dava pace per le ingiustizie che la vita sfornava per lei con implacabile fantasia e che, quell’11 settembre, avevano preso la forma di una tragedia familiare. Donna concreta e razionale, non credeva né ai santi, né ai miracoli, ma solo nelle azioni che ognuno può compiere per migliorare la propria condizione.

Seduta sul letto davanti alla televisione, si era abbandonata allo sconforto, condizione per lei rara. Nella testa un chiodo fisso: il baratro nel quale suo figlio era precipitato.

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Lei è la dimostrazione di come i sogni possano realizzarsi ad ogni età. Non solo.

Lei ci mostra come il giorno del suo e nostro sprofondare nel baratro del dolore, non sia unicamente la fine di qualcosa, ma anche e soprattutto l’inizio di un nuovo viaggio.

Lei si chiama Mariafelicia e la discesa nell’abisso delle sue fragilità, l’ha guidata alla scoperta di uno scrigno colmo di talenti che giaceva smarrito sul fondale oceanico del suo cuore.

Incontro la sua simpatia partenopea sulle Dolomiti e, fra battute e spontanea comicità, percepisco in lei la lucentezza propria di chi ha trovato qualcosa di grande, un sorta di perla preziosa che non ha niente a che vedere con gli incredibili traguardi raggiunti nelle immersioni in apnea,

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Non possiamo rispettarci a vicenda? A cosa serve la critica fulminea per le scelte altrui? Perché ogni schieramento deve erigere la propria muraglia pur sapendo che la separazione rende deboli?

Quando le nostre frequenze sono alte, siamo luminosi, in pace, non offendiamo, sospendiamo il giudizio, dispensiamo amore. Punto.

Quando, invece, vibriamo nell’ombra delle basse frequenze, nutriamo il nostro e altrui malessere scagliandoci contro chi è nero o giallo, vota a destra o a sinistra, non si vaccina o si vaccina, creando divisioni.

Se non ci accorgiamo di quanto distruttiva sia la frattura che le invettive personali provocano ad ogni livello, facciamo un salto indietro nel tempo e osserviamo cosa succede quando a regnare è l’unione.

È il 6 aprile del 2009, sono le 3 e 32 quando la terra dell’Aquila e di altri 56 comuni trema nella notte con una serie di violentissime scosse che causano 309 vittime, 1600 feriti e 100mila sfollati.

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Mi capita spesso di imbattermi in persone che, seppur molto diverse fra loro, sono accomunate dal medesimo smarrimento del non riuscire a trovare il senso della vita, quel senso che esiste e che attende il nostro permesso per svelarcisi.

Agata è passata dal ruolo di manager nella capitale, al silenzio di una tenuta nella campagna laziale; mi racconta della sua felicità e del privilegio d’essere padrona del proprio tempo, ma i suoi occhi trasudano pena.

E che dire di Sergio, triste perché non riesce a superare la morte del padre, suo unico punto di riferimento? Di Marina che corre per arrivare dappertutto e lamenta la mancanza di spazio per sé?

Di Ciro che trova sollievo bevendo? Di Livia che rincorre la serenità frequentando corsi su corsi? Di Mattia che sta male perché non riesce ad andare in pensione, e di Antonio che ci è riuscito e ora si annoia?

Il disagio latente avvolge chi cerca il proprio star bene all’esterno di sé, come se figli, amici, partner, vacanze, oggetti, professioni, case… avessero mai riempito il vuoto che abita le profondità umane.

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Posted by on in PAROLE BELLE

Le ho vissute perché le ho ardentemente desiderate, le notti in foresta. Volevo tuffarmi nella natura, e nel suo immenso amore. Volevo, come cantava Battisti, planare “sopra boschi di braccia tese, respirando brezze che dilagano su terre senza limiti e confini”.

Così, insieme ad altri esploratori del bello, mi sono trovata a calpestare i sentieri delle foreste casentinesi che si snodano fra abeti bianchi, simbolo per i frati camaldolesi di elevazione spirituale, e candidi faggi che, timorosi della luce, crescono fitti per proteggersi dai raggi del sole.

All’ombra di questi giganti, su distese fiorite di salvia dei boschi, abbiamo camminato in religioso silenzio addentrandoci in una cattedrale dalle colonne pregne di centenaria saggezza, respirando ad ogni passo, il riverbero potente di Chi siamo.

Al calar della sera, mentre il sole incendiava le chiome, abbiamo varcato il portale della faggeta dove avremmo dormito accompagnati dalle guide del parco e dagli amici de “La via delle foreste” coordinati da Enrica Bortolazzi, mente creatrice di questo progetto.



Sotto i piedi un profumato tappeto di foglie secche. Sopra la testa un tetto di fronde verdissime. A tratti, sconfinati assaggi di blu.

Nel mezzo solo i faggi che avrebbero custodito i nostri sogni, sorretto le amache e confortato le ataviche paure che il buio avrebbe potuto risvegliare.

Lentamente l’oscurità ha conquistato il cielo e noi, muniti di torce sulla fronte, abbiamo lasciato la radura impregnata delle nostre risate, per raggiungere le amache sparse nel vasto pianoro, richiudendoci al loro interno.

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Posted by on in PAROLE BELLE

È la distrazione che mi colpisce. Quella che diventa fuga. Succede di continuo, come se la vita fosse un incessante allontanarsi da ciò che accade.

Come se mancasse sempre qualcosa e noi non ci stanchissimo di inseguire quella mancanza senza accorgerci che il riempire un’assenza, può solo originarne un’altra.

È stato Giorgio a farmici riflettere mostrandomi altresì come la sofferenza possa aprire un varco nella nebbia delle nostre radicate, inconsapevoli, convinzioni.

«Continuavo a scappare riempiendomi di cose da fare e di persone da frequentare - dice Giorgio sprofondato nella sua poltrona di pelle rossa - una vita piena, la mia, ma di rimbalzi da una situazione all’altra, da una donna all’altra, come una biglia che gira all’impazzata pur di evitare l’incontro con se stessa».

«Qualcosa ha funzionato? Voglio dire: sei mai stato felice?» chiedo.

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Prima o poi succede a tutti di trovarsi improvvisamente avvolti dall’amore, quello vero, quello che non è possesso, bisogno, aspettativa, ma solo autentico, puro, amore.

Lo si riconosce perché è un’esperienza totale che coinvolge corpo, mente e spirito con un’intimità struggente che lascia addosso la dolce nostalgia del ricordo di chi eravamo e di chi, dietro le coltri delle cose del mondo, ancora siamo.

Per Tilla quest’incontro è coinciso con uno scontro che, come per gli appuntamenti più importanti, l’ha colta di sorpresa in una limpida serata, mentre si trovava a pochi chilometri da casa, a bordo della propria Mini Cooper rossa.

Tilla sta guidando, la sua testa è affollata di pensieri. D’improvviso la donna si ritrova davanti le ruote enormi di un trattore. Frena, ma non basta. Gira a sinistra per tentare il sorpasso.

Due fari luminosi corrono verso di lei. Sterza a destra, ma lo scontro è inevitabile. Pam! Primo colpo. Crash! Frammenti di vetro la investono. Tilla si tiene stretta al volante con una forza che non sapeva di avere. Ancora Pum! Pam! Crash!

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Ci sono anime che non è necessario conoscere di persona, perché sono presenze leggere che aleggiano nelle profondità di ognuno di noi, anche al solo incontrarne il ricordo.

È quanto mi è successo quando un’amica mi ha raccontato di Emanuela, e di quella frase che tanto spesso pronunciava, frase rimasta indelebile in me: «Davvero tu non la vedi?»

Sono queste la parole che Emanuela proferiva ogni volta che coglieva la Bellezza che abita in ognuno. Emanuela non notava le meschinità, le paure che ergono scudi, le ferite che pugnalano.

Emanuela non vedeva gente arrogante e intrattabile.

Emanuela non coglieva il bisogno di mettersi in mostra, il giudizio pungente, le pietre verbali che lapidano chiunque transiti nel raggio d’ascolto.

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Mi sono spesso interrogata sul perché del dolore e sulle risposte della natura che, con fantasia e generosità, ci spiega tutto. In particolare mi ha sempre colpito la storia dell’aragosta e il suo mostrarci come la sofferenza sia necessaria per crescere.

Il crostaceo, infatti, ha un corpo morbido che si sviluppa all’interno di un guscio rigido il quale, con il passare del tempo, diventa stretto fino a far male.

È allora che l’aragosta va a nascondersi fra le rocce dove si libera dal guscio che la protegge (ma che non le serve più) e dove, nuda e vulnerabile, attende il formarsi della nuova corazza. Quando, in seguito, anche quel guscio diventerà piccolo, l’animale lo mollerà, ripetendo il processo.

Se, al primo disagio, l’aragosta potesse andare in farmacia ad acquistare un antidolorifico, lì per lì le sembrerebbe di aver trovato una soluzione, ma sarebbe un’illusione che, se reiterata, la porterebbe alla morte.

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La questione non è cosa facciamo, ma come lo facciamo.

Ricordo, in proposito, una colazione che gustai anni fa alla stazione centrale di Milano in un momento di massima concitazione mattutina. Tre file di persone e, dietro il bancone, la Bellezza nel Quotidiano dei due baristi che, immersi nella recita di quella che sembrava una gag comica, si facevano in quattro per servire e scherzare con tutti.

Fra una spremuta per la «bella rossa» e un caffè per il «baffo del west», prendeva vita la meraviglia di chi lavora con passione regalando ad ogni sguardo un’attenzione dedicata o una battuta come «Sarebbe il colmo se lei perdesse il rapido a causa di quest’espresso», o «Signora, che differenza c’è tra un caffè e un uomo? Direi nessuna visto che entrambi la rendono nervosa».

Se in questo momento fossimo tentati di giustificare con la mancanza di tempo il nostro essere persone seriose che lavorano a testa bassa, dovremmo andare in quel bar all’ora di punta e sperimentare come qualsiasi momento sia perfetto per lasciare che a cantare la vita, sia il nostro cuore.

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Aldo era un uomo pieno di vita, spiritoso, sempre in movimento, appassionato lavoratore, indomabile amante. Dico ‘era’ non perché sia morto, ma perché un giorno permise che sulla sua vita calasse il sipario della parola ‘ormai’. Quando successe, Aldo non era anziano, non lo è nemmeno oggi.


Stessa cosa la vidi in Sibilla, una professoressa in pensione, il giorno in cui si accorse di non essere più «quella di prima»; capitava, infatti, che le cedesse un ginocchio o che i figli le rimarcassero il suo ripetersi. Quando la donna si scontrava contro la realtà del fisico acciaccato o della memoria smarrita in qualche anfratto di gioventù, gli ‘ormai’ cadevano a pioggia, deprimendola.


E poi c’è Enrico, il mio giovane amico di 85 anni, un uomo sempre sorridente e allegro che, se ha qualche dolore, canta. Stare in sua compagnia davanti al caminetto che lui chiama il suo televisore, è pura meraviglia; si chiacchiera, ma si potrebbe anche non dire alcunché, giacché la sua presenza irradia un tal benessere da rendere superflue le parole.

Enrico si entusiasma per qualsiasi cosa e ogni giorno è pronto per una nuova avventura. Nel suo vocabolario la parola ‘ormai’ non è mai esistita, perché lui ha sempre goduto del presente e ringraziato, qualsiasi cosa succedesse. Un giorno in risposta alla mia domanda su cosa facesse quanto accadeva qualcosa di brutto, mi ha detto: «Festeggiavo!».

Eppure Enrico non è matto, lui semplicemente si fida di quel che la vita gli riserva e il risultato della sua totale accettazione è impresso sul suo volto, rischiarato dalla gioia. Ne parlo al presente perché, nonostante 4 anni fa abbia lasciato il corpo, la sua luce è ovunque.

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I BRONTOLO, PISOLO E BIANCANEVE CHE VIVONO IN NOI

È più forte di loro, non lo fanno apposta. Sono uomini e donne che si svegliano e sono già di cattivo umore.

Qualsiasi persona incontrino, incarna l’immediato bersaglio contro il quale scagliare il profondo malcontento che li abita.

Si comportano come i teen-ager ben rappresentati dall’adolescente ‘Menabotte’, un personaggio di “Asterix e i Normanni” che viene mandato nel villaggio degli irriducibili galli per diventare uomo.

Menabotte, come ogni adolescente, è dotato fin dal primo mattino di due armi: il “fa tutto schifo” che gli permette di manifestare il disagio del proprio corpo che muta, e il “quel che dici è sbagliato” necessario per contrastare l’adulto e crearsi una propria identità. Fin qui il processo rientra nella normalità.

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