“Hai mai notato un albero che sta nudo contro il sole, com'è bello? Tutti i suoi rami sono delineati, e nella sua nudità vi è una poesia, vi è una canzone. Ogni foglia è andata e sta aspettando la primavera. La primavera, quando arriva, riempie di nuovo l'albero con la musica di molte foglie le quali, nella giusta stagione, cadono e vengono soffiate via. E questo è il modo in cui va la vita” (Krishnamurti).
La melodia gentile di queste parole mi riporta al nostro essere alberi; le radici più grandi sono le gambe, i nostri genitori, ma ce ne sono altre profonde che affondano nel terreno, gli avi, l’ambiente dal quale abbiamo assorbito e assorbiamo gli elementi affettivi, materiali e culturali che ci condizionano.
Il tronco, il nostro busto, ci sostiene, è la struttura portante all’interno della quale si trovano numerosi canali sanguigni che trasportano la linfa dalle radici alla chioma, la testa.
Le nostre braccia protese nel mondo sono i rami già grossi, mentre le mani e le dita sono i più sottili deputati, oltre che alla presa sulle situazioni, a sganciarci di dosso le edere (persone) soffocanti che, abbarbicate alla nostra corteccia, ci succhiano linfa vitale.
Le foglie, i fiori e i frutti rendono visibile il nostro stato di salute; quando, infatti, l’albero non dà frutti o perde le foglie, si chiama l’agronomo che, oltre a valutare la presenza di parassiti, l’esposizione della chioma al sole e delle radici all’acqua, fa l’analisi del terreno: se il suolo è povero (aridità personale) e manca di azoto, fosforo, potassio, il dottore prescrive il concime (un farmaco) che può essere fecondo (amicizie, risate, buon cibo…) o sterile (beni superflui, frequentazioni d’etichetta, l’apparire…).
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