Mi coglie di sorpresa il dialogo di Benedetto con il grande faggio preoccupato per l’edera che opprime il bosco. L’albero sussurra: «Alcuni fratelli sono soffocati al punto da non essere più riconoscibili».
Il ventiquattrenne riflette: «Non siete i soli - afferma - l’edera che si abbarbica sulle vostre cortecce cresce anche su noi umani; nel nostro caso è rappresentata dalle convenzioni familiari e sociali che stringono e co-stringono la nostra essenza individuale».
Il ragazzo decide di aiutare i verdi amici recidendo i vegetali parassiti che infestano i loro tronchi. La gratitudine del faggio si fa parola: «Il tempo che dedicherai a strappare l’edera dai miei compagni lo dedicherai a te stesso concedendoti il tempo di sentirti» perché liberare gli altri è il punto di partenza per vedere le proprie costrizioni, quelle che lentamente ci immobilizzano.
Benedetto Magri, insieme a Sofia Mazzola, Patrizia Chirola, Sabrina Galli e Carlotta Bontempi, ha organizzato una mostra per far comprendere, con l’utilizzo della fotografia, della scultura, del colore, della parola e della musica, che esistono condizionamenti interiori che, come edere avvinghiate alla pelle, ci influenzano nelle azioni di ogni giorno.
D’altronde l’abbiamo provato tutti il fastidio di una benda troppo stretta e Benedetto, con determinazione e occhi limpidi sprofondati di cielo, si serve dell’arte per mettere in scena, insieme agli altri artisti, il sollievo di toglierci di dosso ciò che non ci appartiene.
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