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Il blog felice
Der Blog vom Glück
The happy blog

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Recent blog posts

 

L’uomo folle escogitava modi originali per sorprendere i compaesani con le sue parole. Un giorno, al megafono, trattò il non senso del vivere «sotto l’incalzare degli obblighi, impegnati a sommergere le nostre bassezze nella menzogna e nell’opportunismo.

Tutto ciò fa sì che i pochi attimi di gioia, il più delle volte, soddisfino soltanto il nostro egoismo. Ecco perché l’uomo ha bisogno dell’Amore.

Senza amore l’uomo muore prima perché non riconosce più il bene e finisce per identificare il male con il dolore e il bene con il piacere, stravolgendo il senso della vita e camminando verso l’autodistruzione».

Poi l’uomo folle spariva ben sapendo che «per ognuno c'è un tempo per ogni cosa».

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«Milano fumava. Era asfalto rovente che scorreva in rivoli di sudore fra i palazzi oppressi dalla calura. L’aria si attaccava umida ai polmoni, pesando afosa nei petti stanchi (…)

Ruben, appoggiato al bancone, sorseggiava un bicchiere di menta fresca; era la sua decima estate alla bottega e non gli era mai passato per la mente di chiudere i battenti per andare in vacanza.

In fondo cos’era la vacanza? Una miglior condizione di vita, un cambio di ritmo per ricaricare le pile, ma a lui tutto questo succedeva già. Quando Ruben lavorava ad una scarpa, lo faceva con passione, curandola nei dettagli, anche quelli non visibili;

nascondeva sempre, fra suola e tomaia, una manciata di parole scritte a china, parole positive, parole che avrebbero fatto bene agli acquirenti, calpestando, insieme a loro, asfalto e terra. E talvolta fiori.

Le sue creazioni erano preghiere di cuoio marchiate di sorrisi. Quando usciva dal laboratorio amava passeggiare di notte, o al mattino presto, lungo il naviglio, ascoltando il rumore dei propri passi (…)

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Omar è un cittadino incallito e un imprenditore di successo dedito al lavoro, al lavoro e al lavoro. I suoi tre fratelli idem. L’unica sorella si è accomodata in un matrimonio confortevole e si gode i molteplici stimoli che la vita cittadina offre. La mentalità partenopea inculcata loro sotto pelle dal padre è che la famiglia debba sempre stare unita. A qualunque costo.

Nonostante il capostipite abbia girato da parecchi anni la boa degli ottanta, è onnipresente e sempre attento a controllare le ore che i figli trascorrono in azienda perché quella, dice il vecchio, «è la prima figlia e deve sempre essere al primo posto».

Così è e non si discute, almeno fino a giorno del grande crack che, in questa storia, arriva pochi mesi dopo la dipartita improvvisa degli anziani genitori vittime di un incidente automobilistico. La famiglia perde i timonieri energetici, ma il DNA dei cinque figli ne porta impresso l’imprinting.

Passano i giorni, succedono cose e Omar si sente sempre più a disagio per via di una domanda imbarazzante che continua a girargli dentro: «Sei felice?» È allora che decide di osservarsi per la prima volta. 

«Su quel treno ci ero nato e, proprio perché ci ero nato, non sapevo di esserci - racconta - Per me quel modo di stare al mondo era normale. D’altronde un pesce non si accorge di essere nell’acqua finché qualcuno non lo tira fuori.

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Sono due le cose che Eva non fa: elargire elemosina e permettere alle persone, in particolar modo se sconosciute, di avvicinarsi troppo a lei.

Per questo ha di che stupirsi Eva quando, alla richiesta di denaro del mendicante incontrato in un torrido pomeriggio di luglio nel piazzale del supermercato, invece che denegare borbotta: «Quando esco te li do».

La donna entra nel supermercato e, mentre fa la spesa, continua a pensarci. È turbata. Perché non ha ignorato l’homeless come d’abitudine?

Forse perché non si tratta del solito zingaro che piantona la zona carrelli, rimugina fra sé e sé, ma di un tedesco con le pomelle rosse e una bicicletta verde flou nuova di pacca con attaccato un rimorchio di quelli per portare i bambini che, in questo caso, contiene tutti gli averi dell’uomo.

Mezz’ora dopo Eva esce con il carrello pieno di spesa e si avvicina al mendicante per consegnargli due euro.

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«Giù le mani da mio figlio!» gridò l’anziana in zoppicante avvicinamento. «Scusi, signora, non volevo». Ritrassi subito le dita dal piedino che avevo incautamente accarezzato.

«Non volevo un corno, ma le sembra?» urlò la donna sovrastando il sommesso brulichio della sala. «Che maleducata!»

Indietreggiai di un passo: «Guardi che proprio non intendev…»

Si rabbuiò: «Non bevevo un corno! Qui nessuno le dà da bere!» sbraitò raggiungendomi e prendendo frettolosamente in braccio il piccolo. Lo osservò attentamente per accertarsi che fosse tutto a posto, poi mi guardò con aria di sfida: «E allora: l’ha capita?»

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Alla festa della scuola intervenne il padre di un ragazzo con disabilità fisiche e mentali. Iniziò interrogandosi sull’ordine e sull’armonia che si manifestano in natura quando nessuno ne disturba l’equilibrio e, traslando poi sul figlio, si chiese: «Herbert non impara come gli altri. Non capisce come loro. Dove si trova l’ordine naturale delle cose nel suo caso?». Il silenzio calò sulla platea.

L’uomo proseguì: «Quando nasce un bambino come Herbert, il mondo riceve una rara opportunità: quella di mostrare la vera essenza dell’animo umano che si rivela nel modo in cui gli altri accolgono e trattano la diversità».

L’uomo continua raccontando sul web un episodio indimenticabile: «Era estate. Stavo passeggiando con Herbert vicino a un campo dove alcuni ragazzi giocavano a calcio. Herbert mi chiese: secondo te mi farebbero giocare con loro?».

Fu un attimo. Nel padre si accese una speranza talmente coraggiosa da farlo dirigere subito verso uno dei giocatori per porre la domanda. «Il ragazzo guardò gli amici, esitò, poi disse: stiamo perdendo tre a zero, mancano dieci minuti alla fine. Va bene, può unirsi a noi. Gli faremo tirare un rigore».

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Pasqua ci ha appena ricordato che il senso della nostra vita è saper rinascere dopo essere stati fatti a pezzi dall’esistenza. Come Alessandra Baruffato.

Questa è la sua storia che, uscita dalle pagine «Occhi di riso» dei social, è diventata un libro che racconta, a chi si sente solo, come nessuno lo sia giacché il dolore può tramutarsi in forza, lo smarrimento in consapevolezza, la paura in amore.

«Cinque anni fa, con la nascita di Luna, la mia vita è cambiata per sempre - racconta Alessandra - e quel che ho sperimentato non è stata una frattura, ma un’espansione. Quella notte il tempo sembrava essersi fermato. Ero sopraffatta da un turbine di scenari e paure. Reduce da due aborti, avevo idealizzato il primo contatto di pelle con Luna».

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Arriva dritta al cuore, Chiara Amirante, nel condividere con centinaia di ragazzi le parole che a lei hanno cambiato la vita: «La verità vi farà liberi».

Il punto di partenza, dice la fondatrice della Comunità Nuovi Orizzonti, è proprio il nostro dono di fabbrica: la libertà. Il traguardo? La gioia piena «non l'ebrezza di un momento, ma la pace del cuore che nessuno ti può togliere».

L’errore di base Chiara lo racconta così: «Dottore, io che non bevo, non fumo, non mi drogo, non ho ludopatie, non vado a donne, non perdo tempo sul cellulare, posso vivere fino a cent’anni? Risposta: Sì, ma cosa campi a fare?»

Sembra infatti che lo star bene sia tutto un togliere, quindi il contrario della libertà, quando invece la vera libertà è il non essere schiavi delle dipendenze e delle abitudini malsane che, mentre elargiscono fugaci appagamenti, ci svuotano dentro.

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Ugo è un bambino che fa fatica a seguire le regole. A nulla valgono le sgridate e i castighi degli adulti. L’argomento salta fuori in macchina mentre Margherita e Bianca stanno viaggiando a bordo di una Panda.

«Ugo è un po’ monello» esordisce Margherita.

La risposta di Bianca è immediata: «Non è monello. È piccolo».

Margherita: «Ci vuole pazienza con un bambino così».

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Era Capodanno la prima volta che si incontrarono. A Gg (Giangiacomo) di quella sera passata a suonare la chitarra e a cantare restarono indelebilmente dentro solo due occhi e un sorriso: Gaia. Era il 1995. Avevano 30 anni.

A seguire Gaia e Gg percorsero dieci anni di strade diverse prima di ritrovarsi e non lasciarsi più. «Ci siamo sposati nel 2011. Non abbiamo avuto figli, ma noi due ci bastavamo. Eravamo complici, amici, amanti. Una storia d’amore perfetta.

Poi, il 30 luglio 2015, a Gaia venne diagnosticato un raro melanoma oculare e da quel giorno lei, che era medico, quando le parlavo della gioia di invecchiare insieme mi fissava dicendomi: non succederà».

Eppure le cure sembravano funzionare tanto’è che, superato il controllo di giugno 2021, la coppia trascorse un’estate finalmente serena. Quattro mesi dopo, tuttavia, la TAC non dava scampo. Tentarono a Tel Aviv una nuova terapia che non funzionò. 

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È giorno di mercato nel caratteristico borgo bresciano. Le bancarelle straripano di cibo, vestiti, scarpe. Il cartone appeso vicino ad un cumulo di maglie recita a caratteri cubitali “Grandi Marche 10€”. Gilda sta scavando nel mucchio. Piera, un’altra donna del paese, la raggiunge.

Il dialogo tra le due renderebbe meglio in dialetto stretto.

«Devo dirtene una grossa, Piera, ma 'fa sito’ perché non voglio noie» sbotta agitata Gilda. Piera, con un paio di mutande ascellari in mano, scruta interrogativa l’amica. «Metti che me le portano via, ‘te set’» continua misteriosa Gilda.

«Ma cosa? Oh, comunque ‘me dise nient’» la rassicura Piera soprannominata “la radio”.

«Le mie patate hanno il virus - bisbiglia Gilda all’orecchio della comare stringendo fra le dita una maglia fucsia XXL - Non l’ho detto neanche al mio Primo perché ‘te set’ che si agita subito» aggiunge. 

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 SEMINARIO LA VOCE DEL CUORE

Non l’avrei mai detto che, all’ombra della pergola immersa nella Maremma selvaggia, i nostri cuori sarebbero sprofondati intimamente insieme, e nemmeno mi sarei immaginata che riscrivere da una diversa angolatura alcuni episodi della nostra vita avrebbe sortito cambiamenti così profondi. Eppure è avvenuto, ed è stato liberatorio.

Gabriel Garcia Marquez dice che «la vita non è quella vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda nel raccontarla» ed è proprio questo che è accaduto in quell’anfratto incantato di mondo, allorché i vissuti personali messi nero su bianco sono riemersi scarcerando all’istante il cuore dalla pressione che lo opprimeva.

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Madonna di Campiglio, gioiello incastonato tra le Dolomiti del Brenta, antiche custodi che disegnano in cielo profili maestosi, luogo di rigenerazione per l’anima che, fra foreste di abeti, volpi furtive e timidi camosci, ritrova se stessa. 

D’inverno fiocchi immacolati trasformano il paesaggio in un regno incantato dove il tempo rallenta, il respiro prende il ritmo della montagna e gli sciatori, pennellate variopinte su tela bianca, danzano sulle piste.

Qui, in una piana ad alta quota, viveva Sergio. L’anziano pastore, accompagnato dallo sguardo nascosto del francolino di monte, conduceva nei mesi estivi le capre ai pascoli fioriti lungo ruscelli scintillanti, mentre nella stagione del candore offriva volentieri una tazza di tè agli escursionisti che si spingevano fin lassù.

Un giorno passò un giovane stanco e inquieto. «Come fai a vivere qui senza rumori e senza parole?» chiese con voce carica di frenesia cittadina.

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“«Non so, Mì, è che secondo me dentro ‘sta vita c’è qualcosa di enorme che, incasinati come siamo, non riusciamo a cogliere. Per questo mi fermo e do un taglio alle mie abitudini: voglio vedere cosa succede (…)

voglio fare qualcosa di diverso da quello che faccio tutti i giorni perché così non vado da nessuna parte, o meglio, a te può anche sembrare che vada dove voglio perché ho un lavoro di successo, un fidanzato di successo, una reputazione di successo, ma, Mì, che differenza c’è fra successo e cesso?»

Ci fu un attimo di esitazione. «Uno ha lo scopino, l’altro no?» rispose di getto Milva”. Riuscivano sempre a scherzare su tutto ma quella volta, per Veronica, era davvero tempo di bilanci. E svolte. 

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La sera stava già scollinando nella notte quando Roberto Vecchioni ricevette la telefonata di un caro amico che gli chiedeva come stesse.

«Mi sento molto solo» rispose Roberto.

«Vuoi che venga lì?» chiese l’amico.

«Sì».

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«Era lo zio di mia madre, ma per tutti è sempre stato “lo zio di Bolzano" - ricorda Claudia - una presenza vaga che, quando zia Marta ci invitava da loro per le vacanze, transitava sì dalla grande cucina vista Dolomiti, ma come elemento a se stante privo di collegamento con l’allegria della casa e della zia.

Un giorno sparì. Attesi un po’ prima di chiedere: -Dov’è lo zio?- -Nel suo studio- rispose Marta. -Sempre? A far cosa?- -Chissà!- sorrise lei schiacciandomi l’occhio. Una sera mi appostai vicino allo studio e, quando lo zio uscì: -Cosa fai lì dentro?- gli domandai. -Scrivo-. -Cosa?- -Racconti- rispose lui sparendo nel wc.

Non aveva mai scritto, lo zio. Scoprimmo il suo operato solo a Pasqua allorché, invitati da zia Marta per il consueto pranzo, lo zio mise sotto l’albero di legno delle uova colorate tanti pacchettini identici con il nome dei presenti e altri anche per gli assenti. Non aveva mai fatto regali, lo zio. A nessuno.

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L’ospedale scelto da Arturo distava trecento chilometri da casa. Il cinquantenne era stato operato, ma il delicato intervento non era andato bene e la degenza in rianimazione era stata lunga.

Per i dottori non era ancora fuori pericolo, ma lui si sentiva meglio e quella sera, trasferito in reparto, aveva anche mangiato. 

La moglie Clara uscì per la prima volta dalla camera sollevata. Giunta nel grande atrio d’ingresso e incontrate due eleganti signore che avevano trovato chiuse le porte principali, Clara fece loro strada verso un’uscita laterale.

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Il racconto è di Hemingway. Sulla scena c’è un topo e c’è un contadino che ha appena acquistato una trappola. Terrorizzato «il topolino fece il giro della fattoria avvisando tutti: c’è una trappola per topi in casa! C’è una trappola per topi in casa!

Il pollo alzò la testa e disse: Signor Topo, capisco che è una cosa grave per te, ma non mi riguarda. Non mi preoccupa affatto».

Il topo continuò a correre gridando il pericolo. Il maiale dichiarò di non poterci far nulla, idem la mucca che muggì: «Ohh Sig. Topo, mi dispiace per te ma a me non disturba».

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«Il girone dell’inferno si innescava ogni volta che Flavia tornava a casa con i quaderni pieni di segni rossi. Le ripetevamo di concentrarsi, ma i voti peggioravano, gli insegnanti si lamentavano, noi la aiutavamo con i compiti ma Flavia, le nostre spiegazioni, non le capiva. Non ti dico che nervi, per non parlare dello scoramento.

Ci sentivamo tutti sbagliati» racconta Nicola Monti che, per aiutare chi, come lui, patisce non solo i problemi scolastici, ma anche le discriminazioni e l’impreparazione che circondano la vita di un ragazzo con Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA),

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«Le mogli dei colleghi di Paolo si pavoneggiavano: l’altro giorno mio marito mi ha regalato rose bellissime. Oppure: mio marito mi ha regalato una collana splendida. Guardate!

Io, invece, non potevo esibire niente e neanche aspettarmi un gesto galante da Paolo. Almeno non nel senso inteso generalmente.

Alle feste guardavamo gli altri ballare. Lui rideva come un matto, io protestavo - racconta Agnese - Allora mi faceva finire di parlare poi mi chiedeva: Agnese, ma tu perché stai con me?

Io non ti do niente di tutto questo. Non sono il tipo di marito che torna a casa sempre allo stesso orario, si mette le pantofole, si siede davanti al telegiornale e poi nel pomeriggio porta la moglie in giro per una passeggiata. 

Faceva una pausa e mi diceva ancora: lo sai perché stai con me?

Perché io ti racconto la lieta novella. La prima volta che me lo disse rimasi spiazzata.

Mi misi a piangere. Erano lacrime di felicità». 

Paolo sussurrava ad Agnese che la lieta novella avrebbe tenuto vivo il loro amore, «perché l’amore ha bisogno di mantenersi fresco con una novità ogni giorno che non è il fiore o un regalo qualsiasi.

Perché tutto passa. Io ogni giorno mi devo rinnamorare di te. E tu di me. Inventandoci qualcosa di diverso».

Nonostante le difficoltà che Agnese e Paolo Borsellino dovettero affrontare per la scelta che lui aveva fatto, «la lieta novella che mi raccontava ogni giorno era già tutto per me. E anche le giornate pesanti diventavano allegre con le sue parole»

racconta Agnese che, mentre combatteva contro una grave malattia, decise undici anni fa di raccontare la sua quotidianità con il magistrato vittima di Cosa

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