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Il blog felice
Der Blog vom Glück
The happy blog

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Recent blog posts

Posted by on in PAROLE BELLE

È una morsa, a volte un cappio, la notte della solitudine, quando credi di non farcela e la mente ti assale, stringe e non molla; pensi e ripensi ma, ovunque vaghi, non scorgi via d’uscita perché tutte le porte sono bloccate dalla stessa parola-spranga: solitudine.

Cosa ci fa paura, in realtà? La solitudine dell’incontro con le nostre profondità perché “se guarderai a lungo nell'abisso, l'abisso guarderà dentro di te” (Nietzsche) o l’isolamento di quando siamo fisicamente disgiunti dagli altri?

Esiste davvero la separazione o è un’illusione? “Non è un’illusione” afferma la mente, “Sì che lo è” sussurra il cuore.

Il modo per superare il senso di isolamento dato dalla separazione che il nostro corpo fisico percepisce come reale, secondo Erich Fromm, è l'amore che lo psicologo e filosofo tedesco definisce come potere attivo che annulla le pareti che ci separano dai nostri simili e che tuttavia ci permette di essere noi stessi e di conservare la nostra integrità. 

Mi guardo attorno alla ricerca di questo potere attivo e allargo lo sguardo all’alba del nuovo giorno che pennella il cielo di rosa per poi tingerlo ancora in un crescendo infuocato fino allo scoppio finale, l’oro del sole,

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Oggi ho bisogno di un abbraccio d’eternità che faccia risuonare in me la prova della vita che continua. Per questo racconto di un bouquet improbabile di rose rosse contornate da fiorellini bianchi. 

La storia inizia sul sagrato di una chiesa, dove uno sposo sorridente consegna ad una sposa radiosa un bouquet molto discusso, da lui personalmente scelto, di rose rosso fuoco attorniate dai fiori bianchi del velo da sposa.

La scelta del colore troppo vivace delle rose, in luogo delle tinte pastello più comunemente usate, viene ampiamente criticata, ma Chicco sorride sicuro che alla sua Giò quel bouquet piacerà. Non solo.

Ha messo rose rosse e fiorellini bianchi anche nel vano porta radio della Citroen Ds Pallas a bordo della quale partiranno. E nei capelli di lei.

Da quel giorno la clessidra ha osservato fluire migliaia di granelli di sabbia, nascere due bimbe deliziose e, cinque anni fa, ha anche visto Giò valicare anzitempo la porta del “paese sconosciuto da cui nessun viaggiatore è tornato” (Shakespeare).

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«Non mi parla più, Paola, ed era la mia miglior amica. Ricordi? C’era il rito della colazione al nostro bar preferito, quell’inoltrarci fra le pareti più intime del nostro sentire e quelle risate di gusto fra chi si accetta e mai giudica.

Profondità e leggerezza ci accompagnavano insieme alla sensazione di poterci dire qualsiasi cosa in qualsiasi momento. Adesso che lei è sparita ho freddo. Dentro». Marina è un guerriero di luce disarmato.

«Cosa è successo?» chiedo.

«È assurdo! - Esclama con veemenza - Con lei un bel niente! C’è stata un’incomprensione fra me e un amico comune (con il quale mi sono chiarita e scusata), ma non con Paola».

«Sembra impossibile» commento.

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Non è stato un incontro diretto il mio con il Re del Po, ma filtrato dalle parole di chi ha visitato il suo Regno e toccato con mano l'arma più potente che esista sulla terra: l'animo umano in preda all’entusiasmo (Foch). 

L’autoproclamatosi Re, mancato quest’estate a 79 anni, è Alberto Manotti e l’eredità che ci lascia è frutto della sua energia esplosiva che contagiava chiunque gli si avvicinasse.

Da quasi mezzo secolo Alberto viveva tête-à-tête con il Grande Fiume, recuperando ogni giorno i rami che arrivavano e utilizzandoli per costruire, lungo le sponde in prossimità del ponte di Boretto (Reggio Emilia), intricati rifugi diventati negli anni una sorta di imbarcazione lunga 40 metri e alta 6: Nave Jolanda. 

Vista da lontano la gigantesca struttura è simile a una manciata di shangai lasciati andare sul terreno, ma avvicinandosi si ammira un intreccio ingegneristico di rami e tronchi che Alberto raccoglieva sul letto del fiume, si caricava in spalla e avvinghiava prontamente gli uni agli altri «perché le cose vanno fatte subito!» diceva. Il risultato è un’opera che trasuda amore e ostinazione.

Forse era scritto che un corso d’acqua che nasce al Pian del Re dovesse averlo un proprio Re, un uomo libero e instancabile che portasse avanti una costruzione che le piene danneggiavano e che il sovrano non si stancava di ricostruire, perché quella nave conteneva una ricetta di felicità che lui così sintetizzava:

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C’è sempre un momento dal quale tutto ha origine. Talvolta è una voce che ti si compone dentro, altre un silenzio profondo. In quel frangente immobile di tempo, senti che niente sarà più come prima. È più che una convinzione, è una forza che si impossessa di te e che ti dice «Fai qualcosa!»

Scendi in garage. La tua vecchia Vespa è ancora lì che ti aspetta, è una 125, la guardi con amore mentre uno scoppio di gioia ti esplode dentro. Partirai! Magari a bordo di una Vespa più potente, ma partirai, perché sei pronto a mollare le tue certezze professionali ed economiche, così come le abitudini, le comodità e le relazioni prive di autenticità. 

Sono 35 anni che lavori e te ne mancano 10 per andare in pensione, ma non ne puoi più di quel latente senso di insoddisfazione. Questa vita fatta di corse e di burocrazia è un vortice che ti trascina sempre più giù e tu continui a sprecare l’unica risorsa non recuperabile che hai: il tempo.

Cosa aspetti? Di essere vecchio per godertelo?

C’è un mappamondo impolverato sulla mensola, l’avevi regalato a tuo figlio. Lo sfiori con la mano, il tuo dito si appoggia sulla tua città, Conegliano (TV), e poi si muove disegnando una linea che solca la polvere mentre attraversa Slovenia, Croazia, Montenegro, Albania, Macedonia del Nord, Grecia, Turchia, Iran, Pakistan, India e approda in Nepal. 

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Posted by on in RAGGIUNGERE IL SOGNO

«Siamo due amici. Siamo due attori. E siamo due arrampicatori della domenica, come ci piace definirci. Anni fa ci siamo imbattuti nell’incredibile storia vera di due alpinisti, Joe Simpson e Simon Yates (narrata nel best seller “La Morte Sospesa”). Da questo incontro è nato il nostro primo spettacolo ‘(S)legati’ che è stato il punto di partenza di un’avventura che ancora dura».

Hanno gli occhi accesi dall’entusiasmo, Mattia Fabris e Jacopo Bicocchi, mentre mi raccontano di Joe e Simon e della montagna fattasi metafora delle relazioni portate al limite estremo, quello in cui la verità prende forma, ti mette alle strette e ti costringe a fare quel gesto che sempre ci appare così violento e terribile, ma che, a volte, è l’unico gesto necessario alla vita di entrambi: tagliare. 

«Quel giorno d’inverno eravamo a Bolzano. Tutte le montagne erano innevate. Immediatamente è nato in noi il sogno di poter raccontare “La Morte Sospesa” non solo nei teatri, ma anche sulle cime.

“Facciamo una tournée nei rifugi! - ci siamo detti - di giorno camminiamo e la sera raccontiamo di Joe e di Simon, perché la loro non è solo un’impresa sovrumana, ma un’avventura profondamente umana fatta di gioia, dolore, coraggio, paura, morte, vita; è la storia di tutti noi, quando ci troviamo ad affrontare difficoltà che ci sembrano insormontabili».

I due ragazzi sono così partiti nell’agosto del 2012 per la loro prima tournée nei rifugi delle Alpi Orobie totalizzando ad oggi oltre 300 repliche, vincendo premi e, soprattutto, lasciando agli spettatori, si legge sul loro sito (compagniaslegati.com), l’emozione profonda che fa restare senza parole. 

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Seduta all’imbrunire sull’erba dell’Eremo di Camaldoli, è Padre Ubaldo Cortoni, l’eremita bibliotecario, a raccontarmi di un silenzio «che non è assenza di rumore, ma consapevolezza di un suono. Un silenzio che ci fa prendere coscienza di chi siamo, che ci fa entrare in connessione con ogni cosa e che ci riempie di pace». 

Ubaldo sorride mentre spiega che nel mondo monastico c’è il termine ‘abitare secum’, abitare con se stessi, «che non è sopportarsi, anzi! Noi per lo più abitiamo le nostre stanze, il bosco, cioè occupiamo sempre un luogo fuori da noi, senza renderci conto che il primo posto dove risiedere è al nostro interno e che arrivare lì significa fondersi con il mondo esterno».

Vorrei fermarmi un’eternità su questa frase, ma nuove parole stanno già scorrendo. 

«Quando camminiamo nella foresta seguendo il nostro respiro, senza il divagare della mente, possiamo sentire la natura cioè possiamo diventare natura. Ecco allora la pace, l’assenza di combattimento interiore, la pienezza di tutto». 

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Il mio amico Nicola era stanco, stanchissimo di lavorare a ritmo di quattordici ore al giorno in età già pensionabile, ma c’erano i dipendenti e senza di lui l’attività, che si era artigianalmente costruito, non aveva futuro.

Lo diceva ai suoi ragazzi che non ne poteva più, lo diceva alla figlia e agli amici ma la realtà era che, mentre dispensava parole, continuava a puntare la sveglia all’alba e a tornare a casa alle otto giusto in tempo per farsi la doccia, scaldarsi un pasto e svenire distrutto nel letto.

Chiudere l’azienda, tuttavia, richiedeva ulteriori energie e, al momento, sembrava meno impegnativo continuare a triturare chilometri e accettare commesse. 

Che fare? Nicola non è diverso da noi che fatichiamo con i cambiamenti. Stare nel conosciuto, anche non entusiasmante, è per tutti più facile che spostarsi nell’incognita del nuovo.

È per questo che tendiamo a restare imbrigliati nelle medesime situazioni per anni e, oserei dire, per generazioni.

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Posted by on in PAROLE BELLE

“Se cresci senza nessuno che ti dica che sei bello o che sei bravo, senza una parola di conforto che ti rassicuri dandoti il tuo posto al sole nel mondo, niente sarà mai abbastanza per ripagarti di quel silenzio.

Dentro resterai sempre un bambino affamato di gentilezza, che si sente brutto, incapace e manchevole, qualsiasi cosa accada. E non importa se, nel frattempo, sei diventato la più bella delle creature (F. Ozpetek)”, perché quel sottile dolore uscirà dai tuoi pori e dalla tua bocca finché non imparerai a lasciarlo affiorare, a dargli il suo posto al sole, a tranquillizzarlo sussurrandogli:

«Ti ho scovato dolorino, buongiorno!»

Il punto è vederla, quella sofferenza, che spesso si traveste da felicità come nel caso del post pubblicato da Elena: “Evviva! Traguardo raggiunto. Ringrazio i miei figli, gli amici e anche coloro che non si sono rivelati tali perché, quando si fa bingo, non c’è più spazio per i rancori”.

Questo a parole.

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Posted by on in VIVERE CON PASSIONE

A volte ci penso, alla mia ultima volta. Questa potrebbe essere l’ultima volta che scrivo, che riordino la cucina, che passeggio nel bosco, che sorseggio una tazza di tè mentre l’aurora incede profonda. 

Mi chiedo: quando sorgerà l’alba del nostro ultimo giorno, ne avremo il sentore? Perché, quando arriverà, quella persona sdraiata nella bara, saremo noi. A parte gli scongiuri che possiamo fare in questo momento, questa non vuole essere una macabra iniezione, ma una celebrazione dell’esistenza.

Il soffermarci sull’ultima volta, infatti, ci porta a vivere con una diversa intensità e a percepire, nella totalità del ‘qui e ora’, il nostro essere gocce di mare uniche che si stanno giocando il dono di questo secondo.

Ricordo da ragazza, quando ero in vacanza e arrivava l’ultima sera; non si voleva mai andare a dormire per gustare, fino all’ultimo sorso, ogni momento di quel mondo fatto di nuovi incontri che, all’indomani, sarebbero sfumati nei chilometri rimanendo talvolta appesi alle lettere tessitrici dei fili dell’amicizia.

È rimasto indelebile in me il profondo sguardo di mio zio Mario quando ci salutammo l’ultima volta. Quel mattino, consapevolmente presenti al frammento di esistenza che abitavamo, l’universo intero si concentrò in quell’attimo che divenne assoluto. Lui non mi aveva mai guardata in quel modo e nemmeno io ero mai stata così presente a un istante che sapevo essere l’ultimo prima del grande volo.

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Agosto 2022. Sotto la volta maestosamente verde sorretta da possenti colonnati di abeti bianchi, la cattedrale della foresta di Camaldoli ospita le lunghe orecchie e il dolcissimo sguardo di Toni e Aurora Alba, due asini che lentamente camminano lungo il sentiero che dal Monastero conduce all’Eremo.

Con loro ci sono Carlo Magnani, ligure, ed Helena Kagemark, svedese, una coppia di cinquantenni partiti nel 2016 da Albiano Magra, in Toscana, per raggiungere la Svezia dove «abbiamo capito subito che non eravamo arrivati e che non potevamo fermarci perché il nostro viaggio era appena iniziato».

I coniugi si rimettono in viaggio e riattraversano l’Europa per tornare in Italia godendosi, nella lentezza del loro procedere, la bellezza dei luoghi, degli incontri, dell’ospitalità sempre generosa. 

Sul finire del 2019 si unisce alla carovana, denominata “Un attimo, sto arrivando”, anche un bel cagnone bianco. Lungo la via i coniugi lasciano alle tante persone che li accolgono giovani alberi da piantare per segnare la strada percorsa che hanno battezzato la ‘Via Asina’ in onore dei loro due inseparabili compagni e maestri di viaggio.

«Cosa vi ha indotto, sei anni fa, a partire e ad essere ancora ‘a giro’ come si dice da queste parti?» chiedo.

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Lara, quelle due parole, gliele ripeteva di continuo e Tom, sulle prime, le aveva accolte con la piacevolezza di un tiepido raggio di sole ma ora quel reiterato ‘ti amo’ gli dava fastidio.

Erano due anni che si frequentavano e mentre lei si proclamava innamorata, lui non sapeva come dirle che di quel rapporto non ne poteva più.

Poi arrivò inaspettato un fendente di nome Marco che sezionò con un colpo secco le loro esistenze. Era, Marco Montagnani, un maestro taoista che stava parlando sotto i tigli a un gruppo di persone quando la coppia, di passaggio da quel luogo, si fermò in cerca di ombra.

«Per i taoisti l’amore è cercare il rapporto con il proprio Spirito - diceva l’uomo dagli occhi azzurri che portava i capelli fin sulle spalle - Se questo non succede, il nostro dire ‘ti amo’ significa ‘ho bisogno di te’».

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Non sono state le sue parole, a stupirmi, ma lei, l’intima pace che percepivo mentre asciugavamo i piatti e io non sapevo chi fosse. Con mia figlia si erano conosciute in un villaggio nel quale la ragazza faceva l’animatrice, poi me la sono trovata in casa, di passaggio, ed è stato lì che fissandola negli occhi profondamente verdi, ho sentito che Gaietta, questo il suo nome, emanava la consapevolezza di chi si fida e affida serenamente alla vita, accogliendo la perfezione di ogni evento nella totale accettazione.

Quella sera parlammo a lungo e, tempo dopo, lei mi scrisse: «Ho riflettuto sulla domanda che mi avevi fatto in merito al perché dell’esistenza e, nel mio pensarci, ho perso un amico senza aver avuto il tempo di accorgermene, ho fatto un master di yoga e ho incontrato anime luminose.

Attraverso il mio calpestare le strade di ogni giorno, ho sfiorato le vette dell’Amore innanzi alle quali ho solo potuto rispondere con “lacrime profumate di miele” come scrivi nel tuo libro (“La Forza della Resa”).

La vita è un magico viaggio e non dobbiamo spendere il nostro tempo a pensare troppo, ma a vivere pienamente stando semplicemente vicini a chi soffre e non ha mai sperimentato la magnificenza della luce.

La risposta a tutti i perché, quindi, è in quello che mi succede ogni giorno; Gandhi, quando gli chiesero quale fosse il suo messaggio, disse: “La mia vita è il mio messaggio”. Lo stesso vale per me.

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E pensare che non le avevo notate, le mani di Gigi. Nemmeno i suoi occhi. Ma la voce, di quella mi ero accorta perché mi aveva investita con una cascata di dolcezza e mi ero ritrovata avvolta nel silenzio di parole che mi avevano lasciata senza parole.

«Ero timido da far schifo - dice Gigi - non riuscivo a guardare nessuno negli occhi e più nascondevo il mio difetto, più si vedeva e più mi distruggevano. Mio padre gridava “Sii forte” come a dire che così com’ero non valevo nulla.

Ma chi l’ha detto? Hai notato che se hai un figlio timido è il più sensibile di tutti? Non la vedi che quella è la parte più bella che ha? Invece che distruggergliela, la sua fragilità, insegnagli ad amarla, perché non ci si crogioli dentro, ma la faccia diventare la sua vera forza».

Gigi, la timidezza, l’ha guarita imponendosi per un anno di fissare ogni persona negli occhi. Sudava, ma non scappava dagli sguardi e adesso non ha paura nemmeno di parlare della sua focomelia e di quando, al mare, i bambini gli dessero del monco per le sue dita malformate, e dello zoppo per la sua andatura incerta data dai piedi, anch’essi vittime del talidomide

(un farmaco che negli anni 50 e 60 le donne gravide prendevano per alleviare la nausea e che ha causato in moltissimi nascituri alterazioni congenite nello sviluppo degli arti). 

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«Perché non ho le braccia?» chiede la piccola Simona alla madre.

«Siamo tutti diversi, tesoro mio. Tu hai i capelli lunghi, tua sorella corti, qualcuno è alto, qualcuno basso, tu non hai le braccia, mentre altri le hanno» risponde la donna tranquillizzando in questo modo la figlioletta che, anni dopo, comprendendo la sua condizione, dirà:

«C’era un girasole vicino al cancello di casa che non si è mai stancato di seguire il sole, valicando con il suo capo le inferriate. Quel seme che prima aveva rotto la terra e poi cercato la luce oltre i confini del giardino, pur restando all’interno delle sbarre, mi rappresentava alla perfezione».

Osservo Simona Atzori dipingere con i piedi seduta su di un tavolo. Il suo sorriso è contagioso. La sua bellezza riempie la notte estiva. E riempie me. 

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Arturo e Lisa stanno utilizzando un’applicazione per valutare il loro amore. L’esito del test è sfavorevole e Arturo viene lasciato. Subito. Lo stesso Arturo che, nell’azienda per la quale lavora, ha creato un algoritmo per individuare il personale non più necessario, è il primo a essere licenziato.

L’unico posto che l’over 40 trova è come corriere in bicicletta con paga da fame, impiego che riesce a sopportare grazie all’aiuto che riceve da una App (gratis per un mese) in grado di dar vita all’ologramma della sua partner ideale; l’uomo incontra così Stella, una ragazza in carne e ossa (proiettata virtualmente dal telefonino), che conosce intimamente Arturo grazie alle informazioni da lui stesso messe in rete.

Fra i due scocca l’amore ma, allo scadere del mese, l’App consente il prosieguo dell’idillio solo in cambio del pagamento di un canone oneroso.

Sulla scena di queste vicende raccontate da Pif in un film dell’anno scorso, assistiamo alla deriva della tecnologia che agisce scollegata dal cuore e che ci spinge prima ad affidarci a lei per facilitarci la vita, poi a diventarne dipendenti, infine a metterla addirittura al comando permettendole di decidere al posto nostro.

Possibile? Sì, quando si perde di vista il proprio valore e quando a perderlo è la quasi totalità del genere umano, trasformatasi in un esercito di ubbidienti uomini macchina.

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Brescia. Parco Ducos. Il giovane procede a grandi falcate verso un anziano che, seduto sulla panchina, sta leggendo il Giornale di Brescia e, raggiuntolo, esclama: «Si ricorda di me?» Il vecchio abbassa il quotidiano e cerca nella memoria, senza trovarvi alcunché.

«Professor Rossi - dice il giovane - sono Mino Scafi, ero un suo studente».

«Che piacere rivederti - sorride il Prof - Cosa mi racconti?»

«Sono un insegnante - risponde orgoglioso il giovane - e, in verità, lo sono perché volevo essere per molti ragazzi l’educatore che lei è stato per me».

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“Mi chiamo Rosalia e non mi piace essere compatita. Come avrete visto sono una persona fisicamente non normale a causa di un trauma da parto”. Queste le prime parole con le quali Rosalia si presenta sul suo blog Botanica Commestibile. “Quando sono nata, dopo diversi mesi, si sono accorti che c’era qualcosa che non funzionava. Invece di aumentare di peso, diminuivo".

La piccina aveva infatti numerosi problemi fra i quali una frattura alla gamba, una alla clavicola e una alla mandibola e, nel crescere, le si è manifestata anche una grave scoliosi che ha reso necessario un intervento alla spina dorsale. “In pratica ho trascorso la mia infanzia e adolescenza in ospedale” conclude.

Rosalia percepisce un assegno mensile di 290 euro e, non potendo lavorare a causa dei suoi problemi fisici, oltre a dedicarsi ad un blog sulle ricette lombarde (piattibrescianiraccolta.altervista.org), ha creato anche Botanica Commestibile "perché amo molto la natura e anche per guadagnare qualche soldo”.

In compagnia del suo inseparabile Calimero, un trovatello preso al canile, Rosalia ama passeggiare nei prati e nei boschi di Soprazocco (Bs) fotografando erbe e piante. “Nella natura - scrive - mi sento una persona completa perché la natura non ti giudica, non ha pregiudizi, ti ama per come sei”. 

La piccola grande Rosalia, con le sue 57 estati sulle spalle, nel blog di Botanica Commestibile (botanicacommestibile.altervista.org) ci mostra le piante edibili che incontra nelle sue passeggiate e le relative ricette (come le penne al rafano, le frittelle di elicriso, la panna cotta alla verbena) arricchite da una breve spiegazione sulle proprietà della pianta e, se c’è, da una leggenda.

Dell’elicriso, ad esempio, si racconta che le ragazze, la sera prima di San Giovanni, legassero un nastrino all’erbetta prescelta e “a seconda dell‘insetto che trovavano sulla loro piantina, ricavavano indicazioni sul matrimonio; se c’era la formica significava che avrebbero trovato un marito laborioso, la mosca un marito ozioso, l’ape un apicoltore, il bruco un ortolano, la coccinella un pastore, lo scarabeo un fabbro, il ragno un sarto. Quelle che non trovavano alcun insetto dovevano ripetere il rituale l’anno successivo”.

Siamo immersi in un supermercato naturale che ci viene offerto gratuitamente e ci sono persone speciali che ci insegnano a portare la natura in tavola, e non solo quella. Rosalia ci mostra, con la sua forza, che nonostante la società sembri accogliere solo chi è perfetto, la vita va vissuta giorno per giorno con quello che c’è perché, anche quando quello che c’è non è perfetto agli occhi del mondo, in qualche modo lo è, perfetto.

Ripensando a Ermanno Olmi che si toglieva il cappello ogni volta che passava davanti ad un mandorlo in fiore io, oggi, mi inchino innanzi al sorriso di Rosalia e a tutte le persone che, come lei, ci mostrano come la disabilità sia solo una questione di percezione perché “se puoi fare anche una sola cosa bene - dice Martina Navratilova - sei necessario a qualcuno”.

E Rosalia ci è preziosa oltre che per ridimensionare i nostri crucci quotidiani, per rinfrescarci con un delizioso sorbetto ai gelsi bianchi. Chapeau, Rosalia!

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Dieci parole via mail avevano mandato in frantumi la sua esistenza, venerdì sera, quando Valerio, il titolare, le aveva scritto: “Devo parlarti. Così non si va avanti. Ci vediamo lunedì”. 

Quelle righe erano diventate il suo tormento e, mentre il boss era partito per una breve vacanza con la famiglia, il fine settimana di Laura era stato abitato, oltre che da morsi alla pancia e ansie rosicanti, anche da insonnia e incubi sul licenziamento, in uno scorrere lento di ore intrise di piombo e pensieri catastrofici:

“Perché non mi hai chiamata? Mi licenzi con una mail? E il mutuo? Chi lo trova un lavoro decente a 50 anni? Non avrei dovuto affidare la campagna social a Davide, ma si era venduto bene e l’avevi assunto proprio tu!”

Il sabato, macinato al rallentatore, era stato costellato di spiacevolezze quali una multa, una botta allo stinco, una gomma tagliata e un insulto piovuto a sproposito mentre domenica, nel tentativo di distrarsi facendo una passeggiata, Laura era stata sorpresa da un temporale che le aveva inzuppato cuore e vestiti. 

Lunedì. Valerio entra in ufficio sorridente. Laura, il cuore a 1000, lo segue con lo sguardo da un angolo dell’ufficio. Lo osserva parlare con Davide che si fa serio. Laura ha uno scorpione vivo nello stomaco, sta per arrivare il suo turno. “Devo svenire, subito!” decreta imperiosa la sua mente. Non sviene.

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Non so come definirlo, Fausto. Non mi viene da parlare della sua fama di alpinista. Piuttosto, di un portale aperto sull’umanità. Dopo averlo conosciuto, ho custodito gelosamente in me la magnificenza di quell’incontro speciale.

Non pensavo ne avrei scritto, temevo di violarne l’avvolgente bagliore ma la luce, si sa, non si può confinare, esce da ogni pertugio, carta compresa. Ed eccomi qui a cercare di svelare il tocco di silenzio che mi ha sfiorata, un silenzio che Fausto incarna con l’umiltà propria dei grandi Uomini. 

Ci hanno provato anche gli ‘slegati’ a parlare di lui, inseguendo il suo cuore in azione per poterne carpire l’essenza e restituirla a tutti attraverso una rappresentazione-emozione (che vi consiglio di vedere) dal titolo "Anche i sogni impossibili, il XV Ottomila di Fausto De Stefani”.

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