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Il blog felice
Der Blog vom Glück
The happy blog

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Messaggi recenti del blog

La primavera esplode sventolando una domanda: i nostri sogni sono pronti a sbocciare o si sono seccati? Che ne è di quei sorrisi di quando eravamo cuccioli capaci di trasformare in gioco un legnetto, un’ombra, un tappeto arrotolato a bordo del quale salpavamo per mari lontani?

Sapevamo sognare e trasformare il sogno in realtà e l’abbiamo fatto finché, nel bel mezzo di una sfida con un brontosauro, per farci ubbidire gli adulti ci hanno detto che il gigantesco rettile non esisteva.

Eppure noi lo vedevamo, ma a furia di sentirci ripetere che non era reale, abbiamo iniziato a pensare che fosse meglio dar loro ragione. È così che il processo di desertificazione del nostro potere creativo ha avuto inizio.

Non potevamo fare diversamente perché avevamo bisogno dell’approvazione dei genitori per sopravvivere e non potevamo nemmeno insegnare loro a creare una diversa realtà perché, immersi fino al collo nella materia, non ne erano più capaci.

Ci siamo quindi adeguati, i loro limiti sono diventati i nostri e, giorno dopo giorno, abbiamo sostituito la gioia di vivere dello spirito con fugaci appagamenti materiali. Ci siamo spenti insieme ai nostri sogni, intrappolandoci con le nostre stesse mani.

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È perché ne vedo troppe di malattie che le parole di Alejandro Jodorowsky mi costringono a osservare la realtà dalla prospettiva di chi ha sperimentato come, inconsciamente, i primi a non voler guarire siamo noi.

«L’atto terapeutico è una strana battaglia: si lotta strenuamente per aiutare qualcuno che innalza tutte le barriere possibili per provocare il fallimento della guarigione - scrive Jodorowsky - In un certo senso, per chi è malato, il guaritore è una speranza di salvezza e contemporaneamente un nemico».

La mia perplessità nel leggere queste parole viene chiarita dal prosieguo del testo.

«Chi soffre teme che gli venga rivelata la fonte del suo male di vivere per cui vuole un sedativo, qualcuno che lo renda insensibile al dolore, ma non desidera assolutamente cambiare, non vuole che gli si dimostri che i suoi problemi sono la protesta di un’anima rinchiusa nella prigione di un’identità fasulla». 

La fonte del nostro mal di vivere, secondo Jodorowsky, è il nostro cervello primitivo che ci porta, come gli animali, a difendere il nostro territorio (casa, familiari, attività e, soprattutto, il nostro corpo che la mente identifica con la vita stessa).

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Inviato da il in PAROLE BELLE

Il tavolo di cristallo intorno al quale molte anime sedevano era al centro di un salone con ampie vetrate affacciate su di un parco pieno di sole e allegria.

La prima a parlare fu Corinne, un’anima coraggiosa: «Sono pronta ad andare sulla Terra - disse - per imparare a perdonare».

Dante esclamò: «È una sfida tra le più difficili e dolorose, ma ti aiuteremo; io sarò tuo padre e ti  ostacolerò in ogni modo per fornirti abbondante ‘materia' da perdonare».

Giulio: «Anch’io voglio esserci in veste di marito problematico; sarò un ottimo ‘stimolo’ quotidiano».

«Io ti tratterò ingiustamente sul lavoro - disse Sara - potrai esercitarti molto anche con me».

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Pamela è una manager brillante, la classica professionista quotata che ricopre ruoli di prim’ordine. Di notte, però, fatica a dormire e il mattino si alza in preda all’ansia perché il carico di lavoro la sovrasta e lei aspira alla perfezione senza poter tuttavia controllare le molteplici variabili in campo.

In una corsa a perdifiato nel traffico cittadino, Pamela sfreccia in ufficio travolta dal vortice degli impegni non fermandosi nemmeno nei fine settimana, quando eventi e cene richiedono la sua presenza. 

Cosa accadrebbe se rallentasse un po’? E a noi, cosa succederebbe? 

Fermarci ci metterebbe forse a disagio perché rischieremmo di vederci? Vederci davvero? Abbiamo mai provato a stare soli con noi stessi senza lavoro, telefono, televisore, computer, familiari, amici, animali, parole da leggere e incombenze da sbrigare?

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Inviato da il in NUOVI ORIZZONTI

Mentre la pioggia batte contro i vetri e il vento schiaffeggia i muri della casetta sulla spiaggia, le parole di Colette riempiono l’aria. E riempiono me. «Io prima o poi dovrò spiegare alle persone che non c’è tempo per essere infelici - racconta Colette a Enrica, sua ospite -

Oggi piove? Le piante si bagnano. Fa freddo? È inverno, ne abbiamo bisogno. C’è sempre un motivo di felicità».

La tentazione di vedere la 79enne come una privilegiata alla quale sono stati risparmiati grandi dolori è latente, ma la storia che mi si srotola addosso inizia ai Caraibi con un uragano che rade al suolo il suo villaggio sorprendendo i suoi giovani genitori, entrambi skipper, in mare aperto e mai più restituendo né corpi, né barca.

Alla piccola Colette non resta che immaginare, nei legnetti che da quel giorno raccoglie sulla spiaggia, pezzi di relitto. 

A 16 anni Colette e suo fratello si trasferiscono a Ginevra dove lei si laurea in interpretariato, impara 7 lingue e diventa pilota d’aereo. In Lussemburgo incontra l’anima gemella e dà alla luce una bambina che, a soli 5 anni, muore in un incidente automobilistico insieme al suo papà.

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È il suo grazie che mi rimbomba dentro, insieme alle sue lacrime. A volte vanno a braccetto, gratitudine e dolore, come se l’una sgorgasse dall’altra e soffrire fosse la via obbligata per ritrovare se stessi.

Preferisco credere che così non sia anche se spesso accade che, sfiorando l’abisso, l’essenza di chi siamo emerga innescando un luminoso turbo che realizziamo di avere solo in quel frangente.

Giovanni Allevi ha esordito con “All’improvviso mi è crollato tutto” sul palco dell’Ariston di San Remo, ma io non l’avevo visto. Su suggerimento di un’amica ho recuperato l’intervento sul web: un’ondata di emozione e pura bellezza.

“Ho perso il mio lavoro, i miei capelli, le mie certezze, ma non la mia speranza e la voglia di immaginare”. Immaginare, in me mago agere, eccolo il primo turbo che si è attivato e che nel suo brano Tomorrow (domani), “suonato con tutta l’anima”, ha reso melodia.

Ascolto a occhi chiusi le dita di Giovanni danzare sulla tastiera del pianoforte, è come se cantassero una canzone: alla prima strofa mi vedo correre in un prato cesellato di fiori, farfalle e risate argentine, alla seconda cala sottile una nota di malinconia ma poi la tonalità cambia, sta per succedere qualcosa…

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Si sposò con Enrico in una chiesa italiana, Monique. Indossava un elegante tubino di seta nero «perché è sera e c’è già l’oscurità - affermò - e poi nero perché il matrimonio è una cosa seria».

Lei non lo disse ma quell’abito, scelto per sancire il momento sacro di unione all’amore terreno, sarebbe stato indossato anche alla fine dei suoi giorni per celebrare l’unione solenne all’Amore Supremo.

Fra la prima e l’ultima volta dell’abito nero successe una vita fuori dall’ordinario che Monique documentò e che Enrico mi chiese di raccontare in un prezioso libretto da lui visionato e approvato pagina dopo pagina. 

In una delle ultime righe Monique scrive: «Mi sono accorta che a guardare un album di foto di famiglia si pensa: sono tutti un po’ matti. 

C’è poca realtà in quel mondo fatto di persone sempre ben vestite, sorridenti, in festa. Compleanni, natali, pasque si susseguono un anno dopo l’altro con la rapidità di un carosello scintillante che gira a suon di valzer.

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L’appuntamento fra Rose e sua madre è alle prime ore del giorno, in cucina. 

L’antefatto. Gregory, rovinato dal sesso che lo proietta così velocemente nelle stalle da dimenticarsi all’istante di aver visto le stelle, si convince, in linea con la matematica che insegna, che per godere di un rapporto duraturo basti eliminare l’equazione amore = sesso. 

La ricerca della candidata alla relazione platonica cade su Rose, la non più giovanissima collega di filosofia che Gregory spia durante una lezione sull’amor cortese al tempo di Tristano e Isotta

“quando la letteratura dell’epoca mostrava come il sesso conducesse alla disperazione e alla morte - spiega Rose - e di come dalla passione nata fra un cavaliere di corte e una dama sposata fosse scaturito un sentimento che, non potendo consumarsi sul piano fisico, aveva portato all’unione delle anime”. 

Gregory lascia l’aula entusiasta di quel sermone sull’amore spirituale ma perdendosi l’epilogo sul perché tutti, Rose compresa, anelino comunque alla passione rischiosa dell’amore romantico:

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Inviato da il in VIVERE CON PASSIONE

 

«Sono nei pressi di Logroño, in Spagna, quando vedo un tipo sotto il diluvio che cammina verso il nulla. Mi chiedo chi sia, mi dicono “un pellegrino".

È il 2000, ho 27 anni, non conosco il Cammino di Santiago - racconta Luigi Gatti - e trovo assurdo che qualcuno si faccia 800 km sotto l’acqua e sotto il sole buttando via un mese di vacanza.

Quando l’uomo mi passa accanto, tuttavia, i suoi occhi mi colpiscono: è felice. Io che sono con i miei amici a sbaraccare forse non lo sono così tanto. Perché?».

Sette anni dopo Luigi parte con il suo zaino carico di domande e «nello stesso tratto del cammino in cui avevo visto il pellegrino incontro una ragazza giapponese: Aki.

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Inviato da il in DIFFONDERE IL BENE

Scorrazzava felice con la sua moto, Luca, grato per il sogno a due ruote che all’alba dei 32 anni aveva coronato. Poi arrivò l’autunno e il ragazzo iniziò ad avere problemi di equilibrio ai quali seguirono dolori agli arti e via via nuovi disagi che il mese scorso, mentre addobbi e lucine annunciavano le festività natalizie, portarono al verdetto: Creutzfeldt Jakob.

La sentenza inappellabile era una malattia neurodegenerativa che gli concedeva poche settimane di vita e due alternative: le cure palliative a casa o l’hospice. “A casa” affermò Teresa senza esitazione. 

Nell’arco di pochi giorni Luca si ritrovò allettato, paralizzato e incapace di parlare.

Gli unici movimenti che attualmente gli sono consentiti sono quelli degli occhi e della bocca dalla quale, a fatica, riesce ancora a sorbire cibo liquido amorevolmente preparato dalla madre che gli dice quando aprire le labbra e quando deglutire. 

Il giovane, incarcerato in un corpo che non risponde più ai comandi, si rende conto di tutto; Teresa, imprigionata nel dramma, gli vive accanto giorno e notte sempre disponibile, sempre premurosa, sempre di buon umore, volteggiandogli attorno con la leggerezza di chi non mostra il macigno che le sta spappolando il cuore. 

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Inviato da il in NUOVI ORIZZONTI

Quando ho saputo dei 10000 che il 29 dicembre hanno lasciato le loro case, sono volati da ogni anfratto del Pianeta a Hyderabad, in India, e hanno meditato 7 ore al giorno per creare un’ondata di pace e armonia a beneficio del mondo intero, mi sono detta: quanto amore! 

Questi cuori pulsanti non sono partiti per una vacanza, ma per aiutare tutti noi perché, diceva Maharishi Mahesh Yogi, quando l’1% degli abitanti di un luogo si riunisce nella pratica della meditazione trascendentale (percentuale che si abbassa alla radice quadrata dell’1% con il programma avanzato MT-Sidhi di volo yoga) si crea un flusso di coerenza che influisce beneficamente su tutti.

Detto “effetto Maharishi”, basato sul ripristino del funzionamento neurologico equilibrato del cervello, è stato oggetto di 50 ricerche peer-reviewed e 23 studi pubblicati su riviste scientifiche di rilievo che hanno dimostrato come la sintonizzazione mentale intenzionale, coordinata e allineata verso un unico obiettivo,

porti alla diminuzione della criminalità, della violenza, degli incidenti, delle malattie e persino degli atti di terrorismo e delle guerre, nonché il miglioramento di altri indicatori sociali. 

L’assemblea dei 10000 di questo inizio 2024 è stata organizzata dall’Unione Globale degli Scienziati per la Pace (GUSP) che, nata nel 2005 dal fallimento della Conferenza di Revisione del Trattato di non proliferazione nucleare, è composta da molti partecipanti alla Conferenza stessa;

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Inviato da il in RAGGIUNGERE IL SOGNO

Quanti siamo ad avere talvolta la sensazione di trovarci in mare a bordo di una scialuppa senza vele in balia di fame e vento, ma a continuare a stare lì dove siamo senza riuscire a cambiare alcunché?

Eppure, nel nostro peregrinare, capita di imbatterci in barche invelate condotte da capitani integri che veleggiano sereni; incontrarli è una carezza che resta dentro ma spesso, invece che fermarci su quel tocco di pace, proseguiamo nel nostro affamato e confuso vagare.

Poi sorge l’alba di questa Epifania, festa della manifestazione in mezzo a noi del Dio vivente o, se preferiamo, del senso della vita, quello che ognuno di noi, che ne sia consapevole o meno, cerca seguendo le correnti della ragione, delle filosofie, delle religioni oppure correndo da un impegno all’altro, da un luogo all’altro, da una relazione all’altra, dalla  finzione mediatica di un “grande fratello” a quella di un “grande cuoco”, “grande sportivo”, “grande influencer”.

Pur di anestetizzare la fame di senso esistenziale, c’è chi si spinge finanche nelle devianze che, un attimo dopo la fugace illusione di benessere, aprono Fosse delle Marianne nelle quali le vittime precipitano conce e affamate più di prima. 

D’altronde ci nasciamo con il bisogno di cibo vitale perché, in quanto animali (dal latino ‘animalis’, che dà vita, animato), non sintetizziamo il nostro nutrimento partendo da sostanze inorganiche come fanno le piante, ma solo da composti organici precedentemente elaborati da altri organismi.

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Inviato da il in NUOVI ORIZZONTI

Già lo sento, mi arriva di fronte, ma è come se la sua voce mi entrasse dalla nuca. È il Sig. An (Anno Nuovo) che parla. «E adesso? - chiede - Nata sei nata e pochi giorni fa, a Natale, rinata. Quanto tempo vuoi ancora sprecare?»

«Sprecare? Cosa intendi?» chiedo.

«Tu che dici?» Il tono perentorio di An mi riverbera dentro come un fastidio che mi segnala qualcosa che ho accantonato, un nodo da sciogliere. An mi fissa serio.

Non è il caso di imboccare la via di fuga delle battute, l’ho già fatto l’anno scorso e non l’ha presa bene.

Chiudo gli occhi e affondo in me. Sfoglio la sceneggiatura della mia storia e lascio che i dispiaceri affiorino. Compaiono volti maschili e femminili, ferite che ancora sanguinano e, in centro al petto, un groviglio non ancora dipanato.

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mini racconti intrisi di bellezza

LA RACCOLTA DEGLI ARTICOLI PUBBLICATI SUL GIORNALE DI BRESCIA
DAL 2020 al 2023
DIVENTA UN LIBRO

 

Innaffio il mondo con spruzzi di gioia
che raccontano la quotidianità della vita osservata attraverso le lenti dell’incanto che ognuno di noi può indossare volontariamente in attesa del giorno in cui non ci saranno più occhiali da mettere e da togliere, ma solo verità e bellezza. 
Ovunque. 
Per tutti.

È successo il 31 ottobre 2020; quel giorno “La lezione dell’anitra” ha dato il via a una serie di articoli settimanali sul Giornale di Brescia racchiusi nella cornice della rubrica La Bellezza Nel Quotidiano per provare, con le parole, a sostenere i cuori appesantiti dalla sofferenza di un periodo difficile.

È germogliato così, fra le notizie di attualità, uno spazio di riflessione per mostrare la bellezza che, sempre e comunque, impregna l'esistenza.

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«La mamma se ne andò in uno stupendo pomeriggio fra le montagne di Cortina d’Ampezzo. Quel giorno lei cercò e aspettò me perché ricordava che quando la invitavo a meditare le dicevo: «Dài che ci alleniamo a morire“.

Lì per lì non reagiva proprio bene ma, via via il tempo passava e sorella morte la chiamava sempre più, quando mi vedeva, non potendo parlare, mi faceva un cenno che significava: andiamo ad allenarci.

Successe anche quel giorno; restammo soli per un’ora, io e lei, a godere dello spazio eterno fra i delicati respiri dello stato meditativo.

Alla fine colse, dopo un piccolissimo rantolo, il fiore del silenzio nella trascendenza e il suo volto si distese magnificamente nella bellezza che tutti ammiravano in lei. 

Per il suo funerale chiesi di evitare gli abiti scuri. Vicino alla chiesa un passante mi domandò: “È un matrimonio?” Risposi: “Sì, con l’infinito“. Poi vide la bara e scappò.

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Inviato da il in PAROLE BELLE

Ci sono alcuni parcheggi liberi nel piazzale del piccolo supermercato e ancora non so come io, nel far manovra, abbia potuto centrare in pieno un fuoristrada. Inneggio ai sensori addormentati della retro o alla mia sbadataggine?

Ormai è fatta. Scendo e osservo i danni arrecati al paraurti anteriore della vettura tamponata. Mi guardo attorno. Non c’è nessuno. Scrivo un biglietto e mentre lo lascio sul parabrezza arriva il conducente; la Jeep non è sua ma della fidanzata. Mi farà chiamare. 

La telefonata di Monica mi coglie di sorpresa due giorni dopo. Mi scuso ma lei minimizza pronunciando parole che, nonostante risalgano a 15 anni fa, non ho più dimenticato: «Non preoccuparti, sarebbe potuto succedere anche a me. Me la tengo così, la macchina. Non facciamo niente».

«Non è giusto» replico, ma lei taglia corto come a non voler perdere tempo in discorsi poco interessanti o come se io e lei fossimo una cosa sola. La conversazione vira sui sentimenti, sulle stellate, sui nitriti dei cavalli, sul senso della vita; la nostra conoscenza sembra esistere da sempre.

Alla fine, stupite dall’ora che si è fatta, ci salutiamo con la mia segreta intenzione di portarle un regalo presso il maneggio che frequenta e che ho intuito essere non lontano dal fatidico parcheggio.

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«Avevo 4 anni quando mia madre entrò in ospedale. Ero preoccupato: per la prima volta sarebbe mancata da casa 14 giorni. L’intervento andò bene, ma lei si addormentò. Quel sonno, mi dissero, si chiamava coma.

Due anni dopo fu papà a darmi la notizia: “La mamma si è svegliata, corriamo da lei". Partimmo trepidanti ignari che il suo cervello avesse cancellato, oltre a noi, 10 anni di vita.

Mamma ci mise 2 inverni per tornare a una sorta di normalità e papà altri 2 per ammalarsi e morire». 

Ha 10 anni, Marco, la nuova sofferenza è un macigno immenso e in terza media, per sopportarlo, inizia a tagliarsi. L’ha visto fare ad alcuni ragazzi e gli hanno spiegato che quando ci si fa male tutto il resto sparisce: dolore scaccia dolore.

Ci prova. Funziona. Inizia a incidersi le braccia più volte al giorno, ne ha bisogno per sopravvivere. 

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È un ribelle e in collegio non ci vuole stare, Leoncillo, quindi scappa attraversando di notte i boschi infestati di lupi della sua Umbria, ma a casa ci arriva, incolume, e ci resta giusto il tempo di venire scoperto.

Non gli piace stare in quell’istituto e gli studi tecnici non gli interessano; per il quattordicenne l’unica via di fuga dall’inquietudine è comportarsi in modo inaccettabile.

Il risultato è la bocciatura, ma a casa non la prendono bene. Orfano di padre dall’età di tre anni, la madre lo chiude a chiave in uno sgabuzzino per tutta l’estate affinché studi e rifletta sulle conseguenze della sua condotta. 

Corre l’anno 1930, la stanzetta è angusta, c’è solo una finestrella che dà sul cortine ed è forse proprio lì che, per distrarlo, il fratello gli lascia un secchiello con della creta.

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“Non aveva lasciato passare un minuto della sua vita che non fosse stato impiegato a fare della roba” Mazzarò, il protagonista della novella del Verga, e “di una cosa sola gli doleva, che cominciasse a farsi vecchio, e la terra doveva lasciarla là dov’era”.

Nell’indimenticabile racconto “La roba”, l’autore mette in scena la figura dell’accumulatore che trae sicurezza dal possesso dei beni ai quali si aggrappa come estremo tentativo di legarsi, per loro tramite, alla vita.

“Questa è un’ingiustizia di Dio - dice Mazzarò - che dopo essersi logorata la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora, dovete lasciarla!”

La rabbia del protagonista è la logica conseguenza di chi, non conoscendo l’amore, vive ossessionato sia dall’avere sempre più sia dal tenersi stretto ciò che ha. 

È comprensibile. Siamo corpo, mente e spirito: se diamo da mangiare solo ai primi due, perituri, cercheremo fino allo stremo di non mollarli mentre, se coltiviamo il giardino del cuore, nutriamo lo spirito, sganciamo i pesi che ci ancorano a terra, godiamo di panorami sconfinati e…

«mi accorgo di come, pur limitandosi la mia quotidianità, partecipo molto di più alle vicende del mondo - dice la mia cara amica Paola (81 anni) - Ci sono persone sconosciute che sento vicine e per le quali prego ogni giorno,

come la neonata siriana di Aleppo che nel terremoto dello scorso febbraio è stata trovata viva con il cordone ombelicale ancora attaccato al corpo senza vita della madre.

I miei orizzonti, per un verso rimpiccioliti dal fisico traballante, per un altro si sono ampliati».

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Inviato da il in NUOVI ORIZZONTI

«Uno sparviero così parlò all’usignolo dal variopinto collo mentre, avendolo ghermito con gli artigli, lo stava portando in alto, fra le nubi, e quello, trafitto dagli artigli ricurvi, pietosamente gemeva (…): A che ti lamenti, o infelice?

Ti tiene uno che è più forte; dove ti porto io, tu andrai (…), ti divorerò oppure ti libererò a mio piacere. Stolto è chi vuole combattere contro i più forti: non riporterà alcuna vittoria e, oltre al danno, subirà pure la beffa - racconta Esiodo nel poema Le Opere e i Giorni, VII secolo a.C e poi, rivolgendosi ai giudici -

O Perse, ascolta la giustizia e non alimentare la prepotenza; la prepotenza è dannosa all’uomo debole; nemmeno il grande facilmente la può sopportare, anzi egli stesso rimane oppresso e va incontro a sventure.

Migliore è l’altra strada, verso la giustizia: la giustizia al termine del suo corso vince la prepotenza, e solo soffrendo lo stolto impara».

Mentre uno dei più grandi poeti dell’antichità, raccontandoci il modello negativo di una società basata sull’ingiustizia e sulla legge del più forte, auspica per l’uomo un comportamento diverso da quello delle bestie, noi assistiamo al massacro dei nostri fratelli in nome di pretesti (camuffati da ragioni) costruiti a tavolino dalle fiere umane assetate solo di denaro e di potere. 

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