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Il blog felice
Der Blog vom Glück
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NUOVI ORIZZONTI

Inviato da il in NUOVI ORIZZONTI

Cacciato dalla sua casa di Asti perché non voleva né studiare né lavorare, Renato, sotto l’effetto di un allucinogeno, si ritrova a Palermo. Non ha alcun ricordo né del viaggio né degli ultimi 3 giorni.

È il 1975. Sono 2 anni che vive allo sbando. Non ce la fa più. Decide di seguire l’esempio dell’amico che si è iniettato sotto i suoi occhi un’overdose di morte.

 Seduto sulla panchina di un parco cittadino, nota una donna che da un terrazzo sembra salutarlo. Poco dopo un ragazzo lo raggiunge dicendo che la madre lo aspetta a pranzo.

Conciato come solo la strada sa fare, è la prima volta che qualcuno lo invita a casa. Renato accetta.

Accolto con affetto, gli vengono offerti doccia e vestiti puliti. «Che piacere l’acqua sulla pelle - ricorda - Dopo pranzo la donna mi chiede di raccontarle di me. Sono stupito, mio padre non mi ascoltava mai Le dico di Asti e del resto, evitando particolari sconvenienti.

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È perché ne vedo troppe di malattie che le parole di Alejandro Jodorowsky mi costringono a osservare la realtà dalla prospettiva di chi ha sperimentato come, inconsciamente, i primi a non voler guarire siamo noi.

«L’atto terapeutico è una strana battaglia: si lotta strenuamente per aiutare qualcuno che innalza tutte le barriere possibili per provocare il fallimento della guarigione - scrive Jodorowsky - In un certo senso, per chi è malato, il guaritore è una speranza di salvezza e contemporaneamente un nemico».

La mia perplessità nel leggere queste parole viene chiarita dal prosieguo del testo.

«Chi soffre teme che gli venga rivelata la fonte del suo male di vivere per cui vuole un sedativo, qualcuno che lo renda insensibile al dolore, ma non desidera assolutamente cambiare, non vuole che gli si dimostri che i suoi problemi sono la protesta di un’anima rinchiusa nella prigione di un’identità fasulla». 

La fonte del nostro mal di vivere, secondo Jodorowsky, è il nostro cervello primitivo che ci porta, come gli animali, a difendere il nostro territorio (casa, familiari, attività e, soprattutto, il nostro corpo che la mente identifica con la vita stessa).

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Inviato da il in NUOVI ORIZZONTI

Mentre la pioggia batte contro i vetri e il vento schiaffeggia i muri della casetta sulla spiaggia, le parole di Colette riempiono l’aria. E riempiono me. «Io prima o poi dovrò spiegare alle persone che non c’è tempo per essere infelici - racconta Colette a Enrica, sua ospite -

Oggi piove? Le piante si bagnano. Fa freddo? È inverno, ne abbiamo bisogno. C’è sempre un motivo di felicità».

La tentazione di vedere la 79enne come una privilegiata alla quale sono stati risparmiati grandi dolori è latente, ma la storia che mi si srotola addosso inizia ai Caraibi con un uragano che rade al suolo il suo villaggio sorprendendo i suoi giovani genitori, entrambi skipper, in mare aperto e mai più restituendo né corpi, né barca.

Alla piccola Colette non resta che immaginare, nei legnetti che da quel giorno raccoglie sulla spiaggia, pezzi di relitto. 

A 16 anni Colette e suo fratello si trasferiscono a Ginevra dove lei si laurea in interpretariato, impara 7 lingue e diventa pilota d’aereo. In Lussemburgo incontra l’anima gemella e dà alla luce una bambina che, a soli 5 anni, muore in un incidente automobilistico insieme al suo papà.

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Si sposò con Enrico in una chiesa italiana, Monique. Indossava un elegante tubino di seta nero «perché è sera e c’è già l’oscurità - affermò - e poi nero perché il matrimonio è una cosa seria».

Lei non lo disse ma quell’abito, scelto per sancire il momento sacro di unione all’amore terreno, sarebbe stato indossato anche alla fine dei suoi giorni per celebrare l’unione solenne all’Amore Supremo.

Fra la prima e l’ultima volta dell’abito nero successe una vita fuori dall’ordinario che Monique documentò e che Enrico mi chiese di raccontare in un prezioso libretto da lui visionato e approvato pagina dopo pagina. 

In una delle ultime righe Monique scrive: «Mi sono accorta che a guardare un album di foto di famiglia si pensa: sono tutti un po’ matti. 

C’è poca realtà in quel mondo fatto di persone sempre ben vestite, sorridenti, in festa. Compleanni, natali, pasque si susseguono un anno dopo l’altro con la rapidità di un carosello scintillante che gira a suon di valzer.

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L’appuntamento fra Rose e sua madre è alle prime ore del giorno, in cucina. 

L’antefatto. Gregory, rovinato dal sesso che lo proietta così velocemente nelle stalle da dimenticarsi all’istante di aver visto le stelle, si convince, in linea con la matematica che insegna, che per godere di un rapporto duraturo basti eliminare l’equazione amore = sesso. 

La ricerca della candidata alla relazione platonica cade su Rose, la non più giovanissima collega di filosofia che Gregory spia durante una lezione sull’amor cortese al tempo di Tristano e Isotta

“quando la letteratura dell’epoca mostrava come il sesso conducesse alla disperazione e alla morte - spiega Rose - e di come dalla passione nata fra un cavaliere di corte e una dama sposata fosse scaturito un sentimento che, non potendo consumarsi sul piano fisico, aveva portato all’unione delle anime”. 

Gregory lascia l’aula entusiasta di quel sermone sull’amore spirituale ma perdendosi l’epilogo sul perché tutti, Rose compresa, anelino comunque alla passione rischiosa dell’amore romantico:

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