Bianca Brotto
Diffondiamo Bellezza
RIFUGIARSI NELL'ILLUSIONE PER NON MORIRE DI REALTÀ
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«Giù le mani da mio figlio!» gridò l’anziana in zoppicante avvicinamento. «Scusi, signora, non volevo». Ritrassi subito le dita dal piedino che avevo incautamente accarezzato.
«Non volevo un corno, ma le sembra?» urlò la donna sovrastando il sommesso brulichio della sala. «Che maleducata!»
Indietreggiai di un passo: «Guardi che proprio non intendev…»
Si rabbuiò: «Non bevevo un corno! Qui nessuno le dà da bere!» sbraitò raggiungendomi e prendendo frettolosamente in braccio il piccolo. Lo osservò attentamente per accertarsi che fosse tutto a posto, poi mi guardò con aria di sfida: «E allora: l’ha capita?»
«Sì, certo, mi spiace, io…»
«Ma va’! - alzò la mano - Guardi un po’ se è normale prendere i figli degli altri, scostumata! Ne ho conosciuta io di gente come lei, non è né la prima né l’ultima, e poi - si accomodò il bimbo sulla spalla - non sopporto quelle che fanno da padrone in casa mia».
Il suo sguardo azzannante si posò sul mio braccio. Mi fulminò: «Quella coperta, è mia!»
Sentii lo straccetto di lana a scacchi azzurri e verdi farsi pesante, glielo porsi subito: «È sua? Non sapevo, era qui sul tavolo».
«È sua? - mi fece il verso - e di chi dovrebbe essere? Di chi è il tavolo, eh? Ci sono più furbi che matti qui» concluse strappandomi la copertina di mano e allontanandosi con il fagottino silente.
Raggiunse una carrozzina blu con il parasole abbassato e vi adagiò il pupo delicatamente. Lo coprì e prese a ninnarlo. Io continuavo a osservarla da lontano; la donna, che un tempo mi aveva accudita, sorrideva con lo sguardo fisso al bambolotto che ora riconosceva come suo unico figlio.
Si voltò verso di me e mi invitò con un gesto energico ad allontanarmi.
Andai verso l’uscita mentre l’inserviente stava entrando con la camomilla. Mi girai a osservare la scena: le donne vigilavano sui loro fantocci, nella sala aleggiavano parole smarrite, nenie infantili e ricordi perduti che cozzavano contro alcuni miei pensieri stressati, ritornelli grevi e sogni decapitati.
Quello spazio quotidiano che Marina dedicavo a sua madre, la proiettava in un mondo surreale dove ognuno sembrava creare la propria realtà: c’era chi bisticciava su cosa cucinare per cena, chi parlava da solo, chi dava il biberon a un pupazzo di plastica.
Nell’uscire Marina incrociò il solito tipo arrabbiato: «Ancora qui? - urlò lui - Che ci vieni a fare? Tua madre neanche sa chi sei!»
Marina lo fissò pensando: «Domani tornerò perché io so bene chi lei sia, ma tu? Sarai ancora un uomo sano di mente che sceglie la prigione della rabbia?»
La realtà, mi chiedo, in cosa consiste? Forse proprio nel guardare con occhi consapevoli chi siamo nel profondo e chi veramente sono coloro che abbiamo attorno; ne abbiamo il coraggio o preferiamo rifugiarci in un mondo altro?
Nella sostanza non pare esserci grande distanza fra chi non ha più il dominio sulla propria mente e chi, quel dominio, non lo esercita volontariamente per non morire di realtà… di questa realtà che, per Einstein, «è una semplice illusione, sebbene molto persistente».
E allora, perché non persistere nel creare pensieri carichi di bellezza? Dopo tutto, diceva Catalano, è meglio essere belli, ricchi e sani piuttosto che brutti, poveri e malati.
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