Bianca Brotto
Diffondiamo Bellezza
LE PATATE CON IL VIRUS
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È giorno di mercato nel caratteristico borgo bresciano. Le bancarelle straripano di cibo, vestiti, scarpe. Il cartone appeso vicino ad un cumulo di maglie recita a caratteri cubitali “Grandi Marche 10€”. Gilda sta scavando nel mucchio. Piera, un’altra donna del paese, la raggiunge.
Il dialogo tra le due renderebbe meglio in dialetto stretto.
«Devo dirtene una grossa, Piera, ma 'fa sito’ perché non voglio noie» sbotta agitata Gilda. Piera, con un paio di mutande ascellari in mano, scruta interrogativa l’amica. «Metti che me le portano via, ‘te set’» continua misteriosa Gilda.
«Ma cosa? Oh, comunque ‘me dise nient’» la rassicura Piera soprannominata “la radio”.
«Le mie patate hanno il virus - bisbiglia Gilda all’orecchio della comare stringendo fra le dita una maglia fucsia XXL - Non l’ho detto neanche al mio Primo perché ‘te set’ che si agita subito» aggiunge.
«Virus? Quale virus?»
«Non so. L’ho visto domenica quando sono scesa in cantina a prendere le patate e alcune avevano un bollino viola con un alone. È contagioso! Sono sempre di più. ‘Fa sito’ eh! Con tutta la fatica che abbiamo fatto per seminarle e raccoglierle ci manca pure che me le fanno buttare».
«Sicura che Primo non si sia accorto?»
«Sicura perché, da quando gli ho fatto sparire tutti i bicchieri e le tazze, non va più giù in cantina a bere con gli amici».
In breve le patate con il virus erano sulla bocca di tutte le donne che, sempre con il massimo riserbo, l’avevano riferito solo ai parenti e gli amici più stretti.
Di bocca in bocca era così emerso che quando Gilda andava al lavoro, il marito Primo passava ancora con gli amici la mattinata in cantina in compagnia delle botti (e delle patate) ma, non essendoci più contenitori nei quali travasare il vino, utilizzava a mo’ di bicchiere l’imbuto tappato a forza con una patata che poi gettava nel mucchio.
I ‘ghignolini’ e i pettegolezzi riempivano la bocca di tutti, ma ci vollero parecchi mesi e molte patate bollate prima che l’interessata scoprisse la verità.
D’altronde, nei paesi come nelle città, il contributo maggiore alle conversazioni lo danno sempre gli assenti, forse perché la maggior parte della gente non ha una vita sufficientemente interessante per poter raccontare di sé, o forse perché il “ciciarà e nà“ è per molti preferibile ad un onorevole silenzio.
Se questa storia fosse accaduta nell’antica Grecia e qualcuno avesse provato a raccontarla a Socrate, costui l’avrebbe sottoposto all’esame dei tre filtri; il filtro della verità: «Ti sei accertato al di là di ogni dubbio che ciò che stai per dirmi è vero?»
Il filtro della bontà: «Ciò che desideri raccontarmi su Gilda è una cosa buona?»
Il filtro dell’utilità: «Ciò che sta per uscire dalle tue labbra mi sarà utile?»
Si racconta infatti che quanto un conoscente provò a riferire al grande saggio una diceria a proposito di uno studente, Socrate, dopo aver posto le tre domande, concluse: «Se quindi ciò che vuoi dirmi non sai se è vero, non è buono e neppure utile, perché dirlo?»
Mi chiedo: quanto cambierebbe la qualità del nostro discorrere se anche noi applicassimo la regola dei tre filtri prima di aprire bocca? E, soprattutto, quanto cambieremmo noi?
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