Sulle prime non sapevo perché la storia di Carlo Acutis mi avesse così profondamente colpito, ma poi ho compreso: Carlo non solo si era posto fin da piccolo la domanda su quale fosse il senso della sua vita, ma aveva anche trovato una risposta.
Bambino vivace, simpatico, appassionato di animali, sport e computer, era sempre disponibile verso chi incontrava, conosciuto o sconosciuto che fosse. La fonte dell’amore che viveva e irradiava risiedeva nel suo alimento quotidiano: l’Eucarestia.
Aveva sette anni quando, ricevendola, scoprì in quel sacramento una sorgente inesauribile di gioia e di conforto. «Com’è possibile - si chiedeva - che davanti a un concerto rock o a una partita di calcio ci siano file interminabili di persone mentre davanti al Tabernacolo, dove è presente realmente Dio, dove impariamo a relazionarci con gli altri e ad affrontare con leggerezza tutto ciò che la vita ci porta, non succeda la stessa cosa?»
L’Ostia di cui Carlo si cibava andando a messa ogni giorno era la sua «autostrada per il cielo» perché, diceva il futuro santo, «una vita è veramente bella solo se si arriva ad amare Dio sopra ogni cosa.
Per fare questo abbiamo bisogno dell’aiuto stesso di Dio, cioè dei Suoi sacramenti che ci aiutano a diventare chi potenzialmente già siamo».
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